
“Narcos: Messico” – Uno spin-off sulla fondazione del cartello di Guadalajara
English version below.
Il sospiro di sollievo si ha immediatamente: sulle note di Tuyo si avvia anche questa prima stagione di Narcos: Messico, concepita – tradendo forse le ragioni del finale della terza stagione di Narcos – come uno spin off, sulla fondazione del primo grande cartello messicano a Guadalajara. Volendo pur rifuggire un’analisi di questa scelta, si deve dire che coincide esattamente col rinnovo della serie per almeno un’altra stagione. Fini commerciali? Sarà. C’è anche da chiedersi come si comporterà la serie quando El Chapo dovrà, necessariamente, imporsi come signore della droga, visto che Netflix ha prodotto anche El Chapo, di addirittura tre stagioni. E anche perché, un altro grande interrogativo, El Chapo è sempre e costantemente mostrato come un semplice scugnizzu al servizio di Felix, lo smilzo, il capo del cartello, senza potere decisionale alcuno, senza particolare sprazzi di personalità.
Ad ogni modo, sebbene le modalità siano molto simili, la differenza tra questa e le stagioni precedenti c’è ed è evidente: se la fiction s’alternava a stralci di vero documentario (servizi televisivi su tutto) fin alla decadenza del cartello di Cali, qui soltanto le prime puntate proseguono allo stesso modo, ma s’affrancano facilmente, come se ci fosse meno materiale, o forse per affidare intenzionalmente alla finzionalizzazione il compito di allontanare dagli eventi, insomma impegnare la direzione opposta del documentario. Probabilmente non si tratta di fedeltà o infedeltà alla storia ma del desiderio di differenziare il nuovo ciclo dal precedente – col rischio, sia chiaro, di pendere invece verso il poliziesco standard. La voce narrante, tanto addentro alla storia, si perde nell’onniscenza e viene svelata soltanto durante il season finale.
(E accade anche che, vista l’incandescenza della storia raccontata, si incappi nella censura o in qualcosa di simile. Alcuni nomi sono oscurati con lunghi bip, perché, differentemente dalla situazione colombiana, in Messico il cartello trafficava con l’appoggio del governo e i politici coinvolti, probabilmente, sono ancora in vita).
Altra breve questione: è mantenuto il flashback come stilema narrativo fondamentale, con l’annuncio, nei primi minuti della prima puntata, dell’evento cruciale della stagione, ma di questo niente più, per non incappare in spoiler.
La questione più interessante è l’accoglienza assolutamente entusiasta che la “critica” ha riservato alla serie. La serie è senza dubbio ottima, scorrevolissima, puramente narrativa, dal ritmo incalzante ma anche dalle scelte di regia assolutamente non banali (anche se a volte fin troppo ricorrenti): insistenza sul carrello verso il personaggio, ottico o meno, a fini drammatici; o in direzione opposta, per insistere sulle geometrie degli interni (come l’ufficio del boss all’interno dell’Hotel Americans) e sulla naturale vastità degli esterni, spesso con un movimento da piano medio a campo lungo o totale. E soprattutto attraverso un utilizzo del montaggio a favorire le connessioni visive tra le scene, del tipo: Felix guarda nello specchietto, stacco, Kiki guarda nello specchietto. Nessuna novità, s’intende, ma il carattere sistematico del tipo registico fanno pensare a una precisissima volontà autoriale.
Si diceva, la serie è sì ottima. Ci sono dei “ma”, tanti ma uno in particolare, e cioè la prestazione attoriale (o la coerenza, più che la performance in sé); nonché qualche ingenuità nel trattamento dei personaggi.
La serie fa rimpiangere le prime tre stagioni soprattutto per i protagonisti della vicenda. Michael Peña per Kiki Camarena non convince del tutto – forse rimasto all’inespressività del suo Peter, ingegnere androide in Extinction (Ben Young, 2018) – e fa più che rimpiangere il suo corrispettivo omonimo (un’omonimia molto curiosa, finzione-realtà) interpretato da Pedro Pascal. E Diego Luna in Felix Gallardo allo stesso modo. Due protagonisti non all’altezza dei precedenti, sebbene siano circondati da visi interessanti, da interpretazioni più dinamiche, quali quella di Aaron Staton per Butch Sears, o di Tenoch Huerta in Rafael Caro Quintero, o Joaquin Cosio in Ernesto “Don Neto” Fonseca Carrillo.
Alcune ingenuità riguardano il trattamento di alcuni personaggi: abbiamo detto di El Chapo, che ha sì un bel faccino da villain ma al quale è stato dato praticamente spazio nullo; si parla soprattutto di Azul, che nella prima puntata sembra dover portare sulle spalle buona parte della riuscita attoriale e narrativa della serie ma che piano si dilegua, a favore del suo, si immagina, capo alla DFS (solo a conclusione di stagione riprende un po’ di smalto, ma senza convincere); e si potrebbe parlare di tanti altri, di Don Neto che pure essendo interpretato alla grande in pratica non fa niente, non ha alcun tipo di ruolo, non sembra poter muovere alcun filo.
Insomma, un’ottima prova, ancora incerta però, che ha da verificarsi alla seconda stagione e alla terza sicuramente, visto già il duplice rinnovo (direi programmatissimo), e viste le aspettative alte. Ma rimaniamo felicemente sollevati dalla riconferma più importante: dell’intro musicale di Rodrigo Amarante.
Volete leggere la mia opinione sulle altre stagioni di Narcos? Cliccate qui: Narcos e il realismo magico; ANTEPRIMA: Narcos, la terza stagione.
“Narcos: Messico” – a spin off about the foundation of the Guadalajara cartel
Watching Narcos: Mexico, we immediately feel relieved: Tuyo is still the opening theme of the series. This new season is conceived as a spin off, a jump in the past in relation to the previous seasons of the tv series, and it tells the story of the creation of the first mexican drugs cartel in Guadalajara. This choice, almost a betrayal if we think of Narcos 3 season finale, is tightly linked with the renewal of the series for a new season. Commercial aims? It’s possible. We also want to know how the shows will behave when El Chapo will inevitably impose himself as drugs boss, considering that Netflix produced also an El Chapo three seasons series. And finally, another big question is about the character itself in Narcos, because he is frequently represented as a simple subordinate of Felix the thin (the cartel chief) and nothing else, without ever showing any sign of a strong personality.
However, despite some similarities, there is a difference between this season and the previous one: only the first episodes continued to alternate fiction sequence and documentary sequence (tv reports above all), a shift that charachterized the previous three seasons, up to the Cali cartel decadence. Such a choice is probably due to the wish of pushing events away, to the opposite way of the documentary, because of the hotter materials taken from contemporary history (mexican drug war is still open). Probably we can’t really speak about lack of accuracy here, but simply about the desire of making the new series different also in a narrative way. There are, however, many risks coming out of this: first of all, the season could change its narrative strategy not in a better way, but getting closer to standard crime shows; plus, losing the documentary aspect means also losing the voice over, belonging to an omniscent narrator whose identity is only revealed at the end of the series.
(We also noticed another thing: there are some cases in which censorship is applied, corroborating the mentioned possibility that the series wants to take some distance from the difficult contemporary history)
Another question: flashback is mainteined as the fundamental narrative rhetoric figure, with the announcement, in the first minutes of the first episode, of the season main event.
We can’t really understand why the critics approved only enthusiastically the product. Of couse, Narcos: Mexico is an excellent show, purely narrative, with a strong rhythm but also with a peculiar direction: tracking shots towards the character with dramatic aims; and also in the opposite direction, insisting on the geometry of interiors and on the vastness of outdoor locations. The directing also uses editing to link different scenes with visual connections. Nothing particularly new, but the systemic directing method makes us think of a clear authorial will.
We said: Narcos: Mexico is an exellent show. However, there are some doubts, in particular about the actors and the characters treatment.
We regret the first three seasons especially for the main characters: Michael Peña in Kiki Camarena is not convincing – we think about his previous role in Extinction (Ben Young, 2018), as Peter, an equally inexpressive character. Same goes for Diego Luna in Felix Gallardo. The two protagonists aren’t enough, although they are surrounded by interesting faces, by more dinamic performances, like those of Aaron Staton in Butch Sears, or Tenoch Huerta in Rafael Caro Quintero, or Joaquin Cosio in Ernesto “Don Neto” Fonseca Carrillo.
Some naivety concernes, like we said, the treatment of some characters: beyond El Chapo (who has the face you need to be a villain but to whom no space is left); we want to speak, for example, about Azul: in the first episode it seems that he could be an interesting character but slowly he disappears, in favor of his DFS chief; we can also mention Don Neto, but we stop here because of space reasons (although we would be able to go on with this criticism forever).
Therefore, Narcos: Mexico is a great series, in spite of some errors. We will form a more precise opinion about it only with the next seasons. However, we remain happily relieved for the reconfirmation of Rodrigo Almarante’s Tuyo.
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