
Cos’è la Cultura visuale? Le origini tra Balázs e Moholy-Nagy
Questo articolo fa parte della sezione Lessico della Cultura visuale, dedicata all’approfondimento di alcuni concetti chiave dei visual culture studies: in questo primo contributo ripercorriamo brevemente la nascita della nozione di cultura visuale in rapporto allo sviluppo e alla diffusione nel corso degli anni Venti dei nuovi media ottici.
Quello dei visual culture studies è un vasto campo di ricerca transdisciplinare affermatosi nel contesto accademico angloamericano intorno alla metà degli anni Novanta, frutto di una reazione alle profonde trasformazioni in atto nell’iconosfera (la sfera costituita dall’insieme delle immagini che circolano all’interno di un determinato contesto culturale) occidentale. Se i visual culture studies sono principalmente incentrati sullo studio della nostra contemporaneità, le origini del concetto di cultura visuale risalgono però all’inizio del XX secolo.
È nel 1924 che il teorico del cinema Béla Balázs, in L’uomo visibile (Der sichtbare Mensch), annuncia l’avvento di una nuova cultura, fondata non più sul primato del testo scritto sull’immagine, del sapere concettuale sull’esperienza visiva, ma sulla riappropriazione della dimensione materica e percettiva del mondo.
L’amplificazione della portata del visuale nell’orizzonte sensibile – tratto inconfondibile della nostra contemporaneità e dell’evoluzione dei nuovi media digitali – ha qui la sua origine: nel momento in cui si rende evidente la sempre maggiore inadeguatezza delle arti figurative e letterarie tradizionali a rappresentare il mondo, come anche la portata dell’impatto che il rapido sviluppo e la diffusione di fotografia e cinema sta avendo sulla cultura contemporanea. È a questo momento che si può far risalire la nascita della nuova cultura visuale (visuelle Kultur, in Balázs), legata a doppio nodo alle trasformazioni che i nuovi media ottici introducono non soltanto nei linguaggi artistici tradizionali, ma anche e soprattutto nella stessa percezione della realtà.

Il cinematografo, in particolare, viene considerato da Balázs come un nuovo «organo di senso attraverso cui esperire il mondo», una nuova «facoltà percettiva», in grado di ridefinire progressivamente le coordinate del visibile contemporaneo.
Riferendosi alla distinzione operata da Lessing nel Laocoonte (1766) tra arti del tempo, come la poesia e la musica – che operano con segni che vengono gli uni dopo gli altri (Nacheinander) – e arti dello spazio, come la pittura e la scultura, i cui segni stanno invece in una sequenza consecutiva, gli uni accanto agli altri (Nebeneinander), Balázs sostiene che, mentre i segni verbali rinviano a un significato collocato al di là, dietro di essi (Hintereinander), le immagini cinematografiche forniscono l’immediata visibilità delle cose «le une accanto alle altre», non lasciandosi attraversare al pari delle parole.
«Arte della superficie», il cinema lavora con il «puro materiale della pura visualità», portando alla luce una nuova regione del visibile, rispetto alla quale lo spettatore si trova in una condizione di inedita prossimità rispetto alle cose. Se viene infatti a cadere quella distanza che tradizionalmente caratterizza la fruizione dell’opera d’arte, lo spettatore cinematografico non si trova più di fronte a un mondo inaccessibile e distante, ma – al contrario – viene coinvolto in un’esperienza immediata, non-concettuale, non-verbale (le riflessioni di Balàzs in questa sede fanno ancora riferimento al cinema muto):
Nel cinema l’opera non è un mondo separato, che appare come un microcosmo e come un simulacro, in un altro spazio a cui non abbiamo accesso. La cinepresa prende con sé il mio occhio, e lo conduce nel mezzo dell’immagine. Io vedo le cose nello spazio del film. Sono accerchiato dalle forme del film e imbrigliato nella sua trama, che vedo da ogni lato.
Contemporaneamente a Balàzs, anche l’artista e teorico László Moholy-Nagy – tra le figure di punta del Bauhaus di Gropius – utilizza nei suoi scritti le espressioni «cultura ottica» (optische Kultur) e «cultura della visione» (Schaukultur) in riferimento alle trasformazioni introdotte da fotografia e cinema nel campo del visibile, presentando fenomeni prima inaccessibili all’occhio umano. Si pensi al primo piano: forma di rappresentazione specificatamente cinematografica in cui lo spirito dell’uomo si manifesta «in modo immediato» (umittelbar).
In particolare, Moholy-Nagy pone l’attenzione sulle potenzialità della luce: una materia estesa, malleabile, che – in qualità di «medium di espressione plastica» – può essere organizzata nello spazio attraverso nuove forme di «configurazione ottica» prodotte da dispositivi che l’artista deve saper elaborare lavorando non contro ma con la tecnica; promuovendo così – attraverso un uso produttivo dei media ottici – una riconfigurazione del panorama del visibile. L’occhio avrà così la possibilità di esperire forme di associazione visiva e fenomeni prima invisibili, intraprendendo quello che l’artista ungherese considera un vero e proprio processo di formazione estetica dell’uomo moderno, di educazione (Ausbildung) dello sguardo volto a favorire l’adattamento alla «cultura ottica della nostra epoca», a un panorama percettivo radicalmente mutato dalla tecnologia. È nell’anno successivo alla pubblicazione di L’uomo visibile di Balázs che Moholy-Nagy, in Pittura Fotografia Film (Malerei Fotografie Film), prende atto di quanto cento anni di fotografia e due decenni di cinema abbiano incredibilmente arricchito il campo visivo dell’uomo, tanto da indurre a vedere il mondo «con tutt’altri occhi» e dare così avvio allo sviluppo di una nuova Visione (neues Sehen) del mondo, a una nuova cultura visuale.

Bibliografia essenziale:
A. Pinotti e A. Somaini, Cultura visuale: immagini, sguardi, media, dispositivi, Torino, Einaudi, 2016
B. Balázs, Il film: evoluzione ed essenza di un’arte nuova, introduzione di M. Vallora, Torino, Einaudi, 2002
G. E. Lessing, Laocoonte, a cura di M. Cometa, Palermo, Aesthetica, 1991
L. Moholy-Nagy, Pittura fotografia film, a cura di A. Somaini, Torino, Einaudi, 2010
Immagine di copertina: Renée Falconetti in La passion de Jeanne d’Arc (Carl Theodor Dreyer, 1928)
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