
The Falcon & The Winter Soldier – Sospensione dell’entertainment
C’è un dato interessante su The Falcon & the Winter Soldier che è passato decisamente in sordina nelle varie analisi, almeno nel nostro Paese: secondo due youtuber (Overlord DVD e Doomcock, per chi fosse interessato ai dettagli) una considerevole percentuale degli spettatori statunitensi avrebbe interrotto la visione del secondo episodio durante una scena molto particolare, ovvero quando Sam e Bucky, discutendo per strada, vengono fermati dalla polizia e solo a Sam viene chiesto di favorire i documenti. Questo dato – ammesso ovviamente che i numeri citati dai due youtuber siano corretti – ci porta a ipotizzare che sia stata attuata dagli spettatori una deliberata sospensione. E non solo della visione.

The Falcon & the Winter Soldier, seconda serie del pacchetto Marvel/Disney+ per il 2021, è un prodotto marcatamente e dichiaratamente politico che si inserisce perfettamente nell’alveo delle serie di supereroi “schierate” come Watchmen di HBO o The Boys di Amazon Prime. La quasi totale assenza di contenuti grafici espliciti può far pensare che si tratti di un prodotto meno maturo rispetto a quelli sopracitati. Proprio su questo possibile fraintendimento la serie si mette in gioco, costringendo lo spettatore a confrontarsi non tanto con le tematiche trattate – di fatto già ampiamente affrontate in altre serie – quanto con il livello stesso della trattazione, che è affidato a dei dialoghi e a una scrittura eccezionali. Si potrebbe aggiungere “per un prodotto d’intrattenimento” ma non lo faremo perché è proprio il punto: alle tematiche razziali e antimilitariste (o comunque fortemente scettiche verso il militarismo USA), che ci si poteva legittimamente aspettare da una serie del genere, si aggiunge un’altra questione di attualità ancora più stringente ma che forse non tutti si aspettavano di trovare: il problema dei rifugiati internazionali.
Partiamo col dire che il modo in cui la serie riesce a incastrare il problema dei profughi con quanto narrato finora nel MCU è semplicemente perfetto. Molto si è dibattuto nel post-Endagme sulle conseguenze di un evento catastrofico come lo schiocco di Thanos e il susseguente ritorno alla “normalità”. Malcolm Spellman sembra avere da un lato raccolto tutte le possibili speculazioni e teorie dei fan sulla situazione socio-politica del MCU, dall’altro è riuscito a far comunicare finzione e realtà in una sceneggiatura che dimostra di essere sensibile e informata sulla seconda (almeno rispetto a una certa narrazione mediatica). La posizione della serie sembra essere allineata, come evidenzia un recente video dei Wisecrack, a quella di Giorgio Agamben sulla sospensione dello stato di diritto (vd. Lo stato di eccezione, Torino, Bollati Boringhieri, 2003).
I profughi vivono in una zona grigia tra legalità e illegalità, la quale è però istituita dalla stessa Legge. Una condizione che Karli Morgenthau non è disposta ad accettare e anzi vuole denunciare e combattere anche ricorrendo a mezzi estremi. In questo stato di diritto sospeso, la moralità è l’unico orizzonte d’azione dei protagonisti. Fin dal primo adrenalinico episodio intuiamo l’importanza dei confini (e quindi anche della legge e del diritto internazionale) anche per i supereroi: ad esempio Sam che deve cercare di catturare Batroc prima che attraversi il confine libico. Confini che non esistevano in una precedente condizione di diritto sospeso, appunto i cinque anni post Infinity War nel quale il mondo, per far fronte a una crisi globale senza precedenti, si è trovato unito e compatto. Unione e compattezza che subito si sono sgretolati al ripristino del mondo pre-schiocco. Ciò che quindi Morgenthau vuole fare come “antagonista” non è una banale lotta al sistema quanto un’“emergenza nell’emergenza” che si esplica nella volontà di estensione globale dello stato di eccezione, che è poi lo stato giuridico in cui storicamente vivono tutte le minoranze.

Lo vediamo con la tratta baltica, con la Siria, con i migranti nel Mediterraneo e in generale ovunque nel mondo ci siano profughi e rifugiati. Prima di essere perseguitati, essi sono “sospesi” e lo stesso dicasi per le minoranze etniche, linguistiche o sessuali. Lo stato d’eccezione di cui parla Agamben, che si estende tranquillamente anche alle realtà carcerarie e appunto ai campi profughi, è una legale (ma legittima?) sospensione del diritto e di conseguenza della stessa esistenza di gruppi e individui. Isaiah Bradley, forse il personaggio meglio scritto della serie, non è principalmente – e solo – un perseguitato, ma un sospeso. Certo apprendiamo che viene perseguitato dal KKK, ma i problemi per Bradley iniziano quando viene messo in carcere senza motivo. In quanto appartenente a una minoranza, la sua esistenza poteva essere tranquillamente messa da parte, allontanata dai riflettori anche se era stato un super-soldato, e dimenticata; appunto un’esistenza sospesa. Sospendere un’esistenza come quella di Bradley, di Morgenthau o dei profughi equivale in ultima istanza a una sospensione del giudizio critico sul prossimo e quindi sul mondo.
La sospensione del giudizio o epochè è un requisito minimo sia della corretta fruizione audiovisiva “alta” (teatro, cinema, serie e videogiochi) sia anche ormai e innegabilmente di una parte della nostra microquotidianità. Poco importa che la verità sia davanti agli occhi, l’importante è che quando mi voglio divertire io sia libero di sospendere il giudizio e rintanarmi nell’entertainment delle mie aspettative, le quali, specialmente ora nella microquotidinità dell’intrattenimento (Instagram, TikTok, YouTube et similia), hanno profondamente a che fare con la rassicurante rigidità dei ruoli. Prendiamo John Walker: egli almeno all’inizio è cordiale e bendisposto verso i due protagonisti, addirittura rassicurante nel suo modo fare. Ma quando si rivolge a Sam e Bucky definendoli “sidekicks” di Steve Rogers (“aiutanti” in Italiano, sebbene non renda perfettamente l’idea del rapporto di forza pedagogico tra l’eroe e il pupillo) ecco emergere la rigidità di un “sistema” che magari accoglie anche le minoranze, purché sappiano stare al loro posto e quindi esistere nel contesto appropriato.
Allo stesso modo possiamo scorgere un atteggiamento di rifiuto non troppo diverso in quella presunta considerevole percentuale di spettatori (dobbiamo credere di ogni possibile etnia) che ha interrotto la visione alla scena della polizia nel secondo episodio. È un dato di enorme rilevanza e che illustra chiaramente il sottile rapporto tra razzismo, ruoli e aspettative sull’entertainment: non c’è più niente di problematico nel mettere in scena la verità o urlarla, poiché nell’era della post-verità essa è poco più di un’opinione fra le tante, magari pure legittima ma pur sempre un’opinione.
Watchmen e The Boys sono serie divisive in partenza e infatti nessuno, o comunque pochi, si sognerebbero di dire che sono inappropriate. Casomai basta non guardarle e confermare così la propria appartenenza ideologica. Un prodotto dei Marvel Studios (e, diciamo pure, della Disney) invece è pensato – apparentemente almeno – per essere conciliante e mettere tutti d’accordo. Per quanto possa essere fatto bene è pur sempre intrattenimento, o “montagne russe” per dirla alla Scorsese. Quando però quelle montagne russe ci ricordano che il mondo è un posto complesso, allora iniziano i problemi – o in questo caso la grandezza – della serie. The Falcon & The Winter Soldier risponde alla sospensione del giudizio con la sospensione dei ruoli (Zemo è davvero un antagonista? Sharon è davvero una dei buoni? John Walker è destinato a essere sempre cattivo?) per arrivare a una radicale sospensione dell’entertainment, a partire già dal secondo episodio che ci ricorda, per citare Stan Lee, che il mondo della Marvel è il mondo “fuori dalla finestra”.
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