
The Falcon and the Winter Soldier – Il problema dello scudo
Attenzione: la recensione contiene spoiler per tutti gli episodi della serie | Da venerdì 23 aprile sono disponibili su Disney+ tutti i 6 episodi della nuova serie Marvel The Falcon and the Winter Soldier. È il secondo progetto nella Fase Quattro del MCU e affronta il problema dello scudo di Capitan America, che dopo Avengers: Endgame è in cerca di un nuovo soldato.
Facciamo un passo indietro: quando Joe Simon e Jack Kirby, i creatori del Capitan America “di carta”, elaborarono il design del suo scudo, ebbero un’intuizione geniale. Crearono un simbolo semplice ed efficace, dotato di una potenza rara. In questa serie lo scudo ha un’altissima densità iconica, drammatica e politica. È un oggetto che genera problemi, un’eredità pesantissima e difficile. Nelle scene in cui appare è il centro di gravità attorno a cui ruotano gli equilibri tra i personaggi; anche in scene più quotidiane acquista uno spessore stupefacente: basti pensare quando Bucky vede i giovani nipoti di Sam giocare e passarselo di mano in mano.

Nelle sei puntate, la narrazione orizzontale prevale su quella verticale e a differenza di WandaVision gli episodi hanno scarsa autonomia, perché la continuity è serratissima. La grammatica visiva della serie è quella tipica dei prodotti Marvel: limpida e scorrevole, ormai un marchio di fabbrica e una garanzia. L’unica pecca è lo scontro con i Flag-Smasher all’inizio del sesto episodio, in cui purtroppo la regia si rivela non all’altezza e il montaggio confusionario. Per il resto, il ritmo è implacabile e le sequenze d’azione sono davvero ben gestite e coreografate, nel segno della chiarezza e dell’incisività.

Il tono generale è invece abbastanza diverso da quello di altri prodotti Marvel. Lo si vede nei combattimenti corpo a corpo: cruenti, materici, sporcati da un’inedita fisicità (bellissimo il “triello” tra Bucky, Sam e Walker per il possesso dello scudo all’inizio del quinto episodio). Sono corpi di cui si sente tutto il peso, corpi che stanno combattendo per la vita. Anche se venata dall’umorismo e dall’alchimia dei due protagonisti (interpretati da Anthony Mackie e Sebastian Stan), l’atmosfera è decisamente cupa: dopo un inizio da buddy-cop movie la serie vira fortemente verso il thriller, fino a raggiungere il culmine con la sequenza tesissima e angosciante che conclude il quarto episodio.

Uno scudo a stelle e strisce insanguinato: un’immagine semplice, a tratti certamente retorica, ma potentissima. È l’esempio di come la scrittura della serie sappia accumulare, un episodio dopo l’altro, temi diversi intrecciandoli con grande cura in un groviglio quasi impossibile da sciogliere senza rischiare eccessive semplificazioni. È una narrazione profondamente radicata nell’attualità, che trova il suo perfetto equilibrio nel personaggio di Isaiah Bradley (Carl Lumbly) e in quel piccolo capolavoro che è il quinto episodio.

La stratificazione dei temi si condensa ulteriormente nei personaggi; nella migliore tradizione della Casa delle Idee, non esistono divisioni nette tra buoni e cattivi: Karli Morgenthau (Erin Kellyman) e i Flag-Smasher sono una minaccia temibile proprio perché sorprendentemente plausibile e animata da ideali “nobili” o comunque condivisibili. Il Barone Zemo (bravissimo Daniel Brühl) ha una classe e un carisma smisurati, mentre John Walker (Wyatt Russell) è un personaggio umanissimo, condannato dal suo carattere impulsivo a un ruolo ostile. È davvero difficile definirlo un “cattivo”, perché la sua scrittura – con grande raffinatezza – si gioca su corde emotive inedite: è uno wannabe supereroe, il simbolo di tutti i giovani americani che sognano di diventare come i loro idoli. È il Nuovo Sogno Americano, destinato a schiantarsi contro una realtà che non lo vuole accettare. Le sue motivazioni sono coerenti e per certi versi comprensibili: un ulteriore esempio di questa narrazione sorprendente che non accetta mai di semplificare ma problematizza, chiede allo spettatore di rimettersi in gioco; lo costringe a riflettere sulla contemporaneità, intessendo una fortissima componente politica nella trama apparentemente più di intrattenimento.

Soprattutto, The Falcon and the Winter Soldier è la storia di una doppia genesi: John Walker, nato come un Capitan America apocrifo e disprezzato, diventa U.S. Agent. Sam Wilson invece raccoglie finalmente l’eredità di Steve Rogers ed è consacrato come il vero erede dello scudo, il primo Capitan America di colore: è un passaggio di testimone epocale, importante e ben maturato nel corso degli episodi. Bellissimo il discorso alle autorità nell’episodio finale, in cui Sam – e tramite lui, la serie stessa – mostra che non tutti i problemi si possono risolvere a cazzotti e che il dialogo è spesso la strada giusta.

Captain America and the Winter Soldier – questo dovrebbe essere il “vero” titolo – è un prodotto potente, capace soprattutto di ispirare: sei episodi che, partendo da un simbolo conosciuto, creano un nuovo mito, un modello eroico a cui tendere e in cui identificarsi. È una serie inaspettatamente densa, coraggiosa e per alcuni aspetti molto diversa da altre opere del MCU ma necessaria, che riflette su cosa voglia dire oggi essere davvero (super)eroi. È sufficiente avere poteri fuori dalla norma? La risposta, in classico stile Marvel, è no: conta come li si usa; contano le idee, soprattutto. Conta la volontà di fare del bene, o quanto meno di fare del proprio meglio: è questa la vera eredità dello scudo a stelle e strisce, un’eredità che tutti possono raccogliere.

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