
Wolfwalkers – Il popolo dei lupi | Ritorno alla natura selvaggia
Siamo pervase dalla nostalgia per l’antica natura selvaggia. Pochi sono gli antidoti autorizzati a questo struggimento. Ci hanno insegnato a vergognarci di un simile desiderio. Ci siamo lasciate crescere i capelli e li abbiamo usati per nascondere i sentimenti. Ma l’ombra della Donna Selvaggia ancora si appiatta dietro di noi, nei nostri giorni, nelle nostre notti. Ovunque e sempre, l’ombra che ci trotterella dietro va indubbiamente a quattro zampe.
Clarissa Pinkola Estés
Wolfwalkers – Il popolo dei lupi (uscito su Apple tv + lo scorso dicembre) è il quarto lungometraggio del Cartoon Saloon, lo studio d’animazione nato a Kilkenny, in Irlanda, nel 1999. Dopo la meravigliosa e toccante parentesi afghana di The Breadwinner, diretto da Nora Twomey, i registi Tomm Moore e Ross Stewart tornano al più familiare folklore celtico, attingendo alla leggenda dei lupi mannari di Ossory e alla mitologia dei Túatha Dé Danann (il popolo dei “figli di Danu”, una delle antiche Grandi Madri della preistoria indo-europea) che, secondo la tradizione, furono tra i primi abitanti dell’Irlanda.

Non è certo un caso se l’Isola di Smeraldo annovera tra suoi soprannomi anche “Wolf-land” (“la terra dei lupi”): il lupo grigio fu parte integrante del territorio irlandese da tempi immemori e alimentò ininterrottamente l’immaginario mitico delle popolazioni indigene, fino alla capillare eradicazione che ebbe inizio nel XVI secolo e raggiunse il suo apice durante la colonizzazione inglese ad opera di Cromwell, periodo in cui si svolge la nostra vicenda.
In un mondo ancora permeato di magia e superstizione, la giovane Robyn Goodfellowe lascia l’Inghilterra insieme al padre cacciatore, per recarsi proprio a Kilkenny dove, al comando di Lord Protector (alias Oliver Cromwell), è in corso lo sterminio dell’ultimo branco di lupi, guidato da antiche creature a metà tra l’umano e il ferino: i Wolfwalkers. Essi hanno combattuto strenuamente per difendere il proprio territorio dalla caccia e dal disboscamento, ma sono ormai in via d’estinzione: rimangono solo l’arruffata e vivace Mebh Óg MacTíre e sua madre Moll MacTíre. In stato di veglia sono donne dai lunghi capelli rossi e dallo sguardo ieratico, ma quando si addormentano, il loro spirito abbandona il corpo per assumere le sembianze di un lupo.

Al di là della trama e dei temi affrontati, ciò che determina l’alta qualità del lungometraggio è senza dubbio lo stile grafico, che ha il suo punto di forza nella tecnica tradizionale del disegno a mano. Il Cartoon Saloon ha infatti sviluppato un tratto estremamente originale a partire dal suo primo capolavoro, The Secret of Kells, in cui l’appiattimento prospettico e l’abbondante uso della linea a spirale si ispirano alle eleganti miniature del celeberrimo Libro di Kells.
Wolfwalkers – Il popolo dei lupi adotta la geometricità degli esordi, integrando un evidente richiamo alla xilografia e un’affascinante caratterizzazione visiva dei personaggi: le linee di contorno, che sono vive ed esprimono gli stati d’animo dei protagonisti, possono essere dritte e spezzate, così da formare figure spigolose, come accade per l’avventurosa e determinata Robyn, oppure curve e sinuose per esprimere una personalità indomita e impetuosa (Mebh), amorevole e accogliente (Moll). Anche il paesaggio viene coinvolto in questa rappresentazione, con tratti più sciolti e flessibili per la foresta, rigidi e austeri per la città. Si crea dunque una dicotomia stilistica tra due realtà apparentemente opposte e in conflitto: civiltà (cui appartiene la stessa Robyn) e natura selvaggia.

In un’intervista per IndieWire, Tomm Moore ha spiegato che i lupi sono associati, nel folklore irlandese, alla natura e alla trasformazione umana. La figura del licantropo, in virtù della sua dualità, si presenta dunque come possibile mediatore del conflitto, ma anche come simbolo dell’originaria comunione tra uomo e natura; un’unione del tutto perduta e dimenticata dall’idea di progresso di una civiltà che, in nome della sopravvivenza e della presupposta superiorità dell’essere umano, distrugge irreversibilmente innumerevoli specie ed ecosistemi, senza pietà, senza sapere che il danno più grande lo sta arrecando a sé stessa.
«Sono solo bestie» afferma con forza Lord Protector riferendosi ai Wolfwalkers. La via di mezzo non è contemplata. Il dialogo è rifiutato con cieca violenza e la riconciliazione si rivela impossibile. Eppure, abbracciare il punto di vista dell’altro si rivelerebbe un’esperienza illuminante, un prezioso mezzo per conoscere sé stessi, come ci insegnano le meravigliose scene in “wolfvision“ (“visione da lupo”), durante le quali il senso dominante non è più la vista (che rappresenta la prospettiva umana), bensì l’olfatto e l’udito, le cui percezioni sono magistralmente rappresentate attraverso scie di varie tonalità cromatiche su sfondo scuro e poco definito. La conoscenza olfattiva e uditiva dei Wolfwalkers diventa metafora di un antico istinto da tempo scomparso tra gli uomini, soffocato da una ragione sterile e molto spesso degradante. La foresta e i suoi lupi sono il correlativo oggettivo di una dimensione interiore votata alla libertà e all’autenticità, ma dissodata e bonificata all’estremo da costrutti culturali che ne hanno esaurito le capacità rigenerative.

Non c’è dubbio che Wolfwalkers – Il popolo dei lupi sia un’opera di grande valore artistico, e la candidatura ai premi Oscar 2021 non arriva inaspettata. Un encomio speciale va alla colonna sonora, curata da Bruno Coulais e impreziosita da un’inedita versione di Running with the wolves di Aurora, che si adatta perfettamente all’atmosfera del lungometraggio e regala momenti di grande emozione. Non ci resta che sperare in una meritatissima vittoria, grazie alla quale il Cartoon Saloon riceverebbe finalmente una maggiore attenzione a livello internazionale.
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