
Una donna promettente – La vendetta è donna
“Sono un bravo ragazzo”. “Ci stavamo solo divertendo”. Sono copie ingiallite di mille parole buttate al vento, quelle che legano le confessioni (o pseudo-tali) degli uomini di Una donna promettente, e quelle che invadono le pagine di cronaca fuori dallo schermo cinematografico. Corpi appiattiti, privi di una tridimensionalità che ritrova un riscontro nella quotidianità del reale, e riproposti con inerzia, per abitudine, come un copione da declamare in uno spettacolo del dolore, nel tentativo di convincere i propri spettatori della verosimiglianza della propria performance.
Ma Cassandra (Carey Mulligan) non è una donna come le altre. È una donna che promette e agisce, che brucia di vendetta, là dove il colore si scontra con il buio di un’interiorità pronta ad avvolgere mani che toccano dove non dovrebbero, e labbra che baciano corpi immobili e inebriati.
Quello scritto e diretto da Emerald Fennell (la Camilla di The Crown) è un manifesto sul consenso, negato e rivendicato con lasciti di giustizia personale. Una rivendicazione sottile, intelligente, costruita giocando a nascondino con la psicologia inversa e gli istinti predatori da disinnescare con furbizia.

I corpi come templi depauperati dal desiderio lascivo, sono adesso cristallizzati nell’attesa che un bagliore di luce e speranza li rianimi. Un elettroshock che nel mondo di Cassie fa fatica a essere rilasciato. Serviranno gli occhi di un ragazzo diverso, simpatico, che aspetta e guarda al posto di toccare, affinché l’universo della protagonista riprenda a roteare su se stesso. Un blocco mentale, e fisico, il suo, giocato sulla reiterazione di un piano di vendetta in nome della migliore amica Nina, vittima di un abuso sessuale rimasto sospeso, che la regista rende visibili sfruttando la potenza di inquadrature ferme, fisse, fatte di poche, limitate, carrellate. L’abbondanza di piani medi in Una donna promettente è una galleria di sguardi che non osano scendere al di sotto del bacino, verso quel mondo troppe volte vittima di un tentativo di sottomissione e appropriazione non consensuale. Tagliati verso il basso, i maschi occupano invece la parte inferiore dell’inquadratura, schiacciati dal peso dei propri rimorsi e atti impuri. I loro occhi non incontrano il centro dell’obiettivo della macchina da presa, (e quindi gli occhi dello spettatore). Perdono il centro della scena e con esso la propria unità. Sono frammenti di un’umanità perduta, spettri di una bestialità fatta di istinto, imprigionati in uno spazio ristretto, che li spinge verso il basso, verso quell’universo infernale a cui appartengono. La stessa vita di Cassandra è bloccata, messa in pausa, nessun stimolo sembra capace di cliccare sul pulsante “play” e lasciarla scorrere sui nastri di una pellicola evolutiva. La vita le scorre davanti, mentre lei rimane ferma, prigioniera di una rete di giustizia attraverso cui dar voce a chi quella voce non ce l’ha più. I colori accesi di una principessa di un regno fatato, lasciano ben presto posto al buio della notte, abito (o)scuro di incubi che prendono piede facendosi tangibili, sprazzi di fumus persecutionis e schiaffi verbosi di una lama affilata e infusi di sporca vergogna. Il contrasto tra i colori pastello del giorno, e una fotografia desaturata della sera, trova un punto di incontro nella riproposizione di strisce di rosso acceso, metafora di violenza, sangue, fiamme di vendetta.

Filtrata dallo sguardo della Fennell, Carey Mulligan non solo è una ragazza promettente, o un baluardo di bruciante vendetta in un mondo rivolto con lo sguardo verso continue (in)giustizie. La sua Cassandra è una colonna su cui si appoggia il tempio della vendetta. Ogni sospiro, rantolo, urlo, è una lama che taglia tele dipinte con tutte le sfumatura di una bugia. È un ossimoro paradossale quello che investe la sua Cassie, un contrasto umano in cui due anime contrapposte convivono in uno stesso corpo che si fa oggetto del desiderio e strumento di vendetta. “Posso essere diavolo, e pure angelo” canta Paris Hilton, e non c’è verso migliore per riassumere l’essenza di Cassandra, donna che si fa megafono corporeo su abusi e violenze, e allo stesso tempo speranza silenziosa nell’attesa che il suo cuore possa riprendere a battere, e le gambe a muoversi. Ma ecco che basta il fiorire di un ricordo, o di un’associazione mentale, che tutto ritorna in stand-by. Si ripropone, in questi casi, un ulteriore momento in cui l’anima si gonfia e si sclerotizza, cessa di essere espansione e diventa rifugio, rompendo un muro di omertà.

Nessuno meglio di Emerald Fennell, attrice e sceneggiatrice, per raccontare la storia di Una donna promettente. La Fennell sa le regole del gioco, e non ha paura di metterle in atto, costruendo una struttura narrativa impregnata di caustico sarcasmo e ombre nefaste. Dalla pagina, infonde vita a personaggi i cui corpi si muovono come pedine in un gioco a domino dove basta un passo falso che tutto è pronto a crollare. Il film non si crogiola nella retorica lacrimogena, o nei cliché reiterati, ma predilige le atmosfere sospese e l’osservazione fenomenologica. La regista costruisce così un tessuto espressivo per veicolare un universo solo apparentemente rimosso che si dà nei lapsus mai esplicitamente mostrati, ma suggeriti a parole e ricreati mentalmente dallo spettatore, e per questo ancora più di impatto, trasformando la realtà in ombra.

La struttura narrativa segue la perfetta caduta dell’eroe. I quadri sono immersioni in un vortice nell’oblio e dell’annullamento del sé, costruiti in modo da destabilizzare lo spettatore con uno sguardo netto, nitido, e allo stesso tempo perturbante. Quella di Una donna promettente è una visione sobria e al contempo allucinatoria di chi vive con raziocinio l’incubo della quotidianità tentando di smussarlo e annullarlo. Una dicotomia perturbante esacerbata da un uso anaempatico della colonna sonora, fatta di brani pop distorti così aliebtare la componente ansiogena del film. Un mix-tape di brani facilmente riconoscibili, eppure così differenti, (si pensi al remix in chiave orrorifica di Toxic di Britney Spears) tanto nella natura armoniosa che simbolica, associazioni musicali di un’esplosione emotiva fatta di paure, inquietudine e autorevolezza. In questo crescendo ansiogeno, il finale è la dichiarazione conclusiva di un saggio di giustizia ricercata e ottenuta, lasciando che la macchina da presa possa adesso muoversi liberamente, come libere sono le coscienze e le anime prima bloccate in un limbo di eterna attesa, e ora svincolate da quegli sguardi mendaci e ambigui dell’universo maschile. E se è vero che ogni film ci propone un mondo possibile e al contempo ci dice qualcosa sul mondo reale, chissà se attraverso questa donna promettente di celluloide, altre voci si alzeranno, e messaggi verranno inviati. Con amore e colorata vendetta.
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