
The Father – Nel labirinto della mente
The Father – Nulla è come sembra (2020) è la disorientante opera prima di Florian Zeller, scrittore e drammaturgo francese che ha riadattato per il cinema la pièce teatrale La Père, da lui scritta e diretta, debuttata a Parigi nel 2012 e che ha ormai raggiunto fama internazionale. Presentato in anteprima al Sundance Film Festival 2020, il film ha ricevuto ben sei nomination agli Oscar 2021 dove concorre, tra le altre, nelle categorie Miglior film e Miglior sceneggiatura non originale. Attraverso il suo film, Florian Zeller mette a punto un ritratto fedele della demenza senile, raccontata con un tono privo di patetismo, ma riuscendo ad alternare momenti divertenti ad altri più cupi e dolorosi. Al centro di The Father c’è Anthony (Anthony Hopkins), la sua malattia e il rapporto contrastato con la figlia Anne (Olivia Colman), che faticosamente si prende cura di lui. Zeller riesce nell’intento di rappresentare in maniera realistica e precisa il deterioramento cognitivo, scegliendo di glissare sulle ricadute fisiche di quest’ultimo, ma concentrandosi sugli effetti psicologici della malattia sul paziente, ma anche, inevitabilmente, su chi gli sta intorno.

Anthony Hopkins, candidato all’Oscar come miglior attore protagonista, ci regala una splendida interpretazione, riuscendo a cogliere in pieno l’essenza del suo personaggio: un uomo ora divertente, ora patetico, a tratti perfino crudele, talmente inestricabilmente legato alla sua malattia che è ormai quasi impossibile distinguere l’uno dall’altra. Non è da meno Olivia Colman, anch’essa candidata agli Oscar come miglior attrice non protagonista, che assiste impotente al continuo declino del padre, sempre più capriccioso e intollerante, in un tumulto di emozioni che vanno dall’amore incondizionato all’esasperazione più profonda. Il dolore per la perdita di una persona amata si mescola così, all’interno della pellicola, a scoppi di rabbia, litigi continui e ad un forte senso di fastidio, ben incarnato dall’odioso fidanzato di Anne.

Questo soggetto non è sicuramente una novità all’interno dell’universo cinematografico, che ha trattato temi simili in numerosi film, tra i quali ricordiamo Still Alice (Richard Galtzer e Wash Westmoreland, 2014) e Away from Her (Sarah Polley, 2006); degno di nota è invece, accanto all’interpretazione superba dei suoi protagonisti e all’accuratezza della scrittura, il modo in cui il tutto ci viene raccontato. Fin dai primi minuti ci accorgiamo infatti che qualcosa non quadra, i personaggi continuano a dire il contrario di ciò che hanno affermato nella scena precedente, compaiono, scompaiono, cambiano addirittura fisionomia. Le scene si ripetono, ogni volta con qualche piccola modifica, e la narrazione si frantuma in un andirivieni caotico sulla linea del tempo; il racconto della demenza senile assume quasi il tono di un thriller. Siamo confusi, smarriti in un vortice caotico di facce e avvenimenti che non riusciamo a comprendere pienamente, proprio come il protagonista della pellicola, Anthony.
Florian Zeller gioca con i suoi spettatori, li spiazza, sottrae loro ogni appiglio temporale e spaziale, rendendo impossibile ricostruire la vicenda, arrivare alla “verità”. Si svela allora il gioco del regista francese, che adotta il punto di vista del malato, Anthony, traducendo in immagini la sua confusione mentale e dando vita ad una narrazione che è di fatto del tutto inattendibile. Il tempo del racconto si ripiega continuamente su se stesso, è fatto di ripetizioni e variazioni sul tema, con una cronologia confusa e non lineare. Emblematica è da questo punto di vista l’insistenza di Anthony sul suo amato orologio, unico appiglio all’oggettività del reale, che inevitabilmente continua a smarrire.

Quella di Zeller è un’opera camaleontica, dove tutti gli elementi diegetici continuano a cambiare sotto i nostri occhi. Si modificano le battute pronunciate dai personaggi, mutano le scene e i volti, ma è soprattutto lo spazio ad essere in continua metamorfosi. Come l’opera teatrale di cui è figlia, l’intera pellicola è ambientata in uno spazio chiuso ma in continua evoluzione, l’appartamento dove vivono Anne e suo padre. Abilmente il drammaturgo francese intervalla la narrazione con una serie di inquadrature che si soffermano su questo ambiente, elevandolo al ruolo di terzo protagonista della vicenda e testimoniandone l’incessante ma quasi impercettibile metamorfosi. È ancora una volta Anthony a richiamare l’attenzione sullo spazio, insistendo ossessivamente fin dalle prime battute del film sul possesso dell’appartamento, «my flat», testarda rivendicazione di una propria indipendenza, che persiste nonostante tutto.
La scelta di girare l’intero film all’interno di un unico spazio aumenta quella sensazione di claustrofobia e oppressione che proviamo assieme all’anziano protagonista, schiacciato da avvenimenti che risultano del tutto incomprensibili e incontrollabili. Anthony cerca allora una via di fuga nel mondo esterno, guardando continuamente fuori dalla finestra, come farà la macchina da presa nel finale liberatorio, quando, per la prima volta dopo 97 minuti, travalicherà lo spazio chiuso della stanza uscendo al di là del vetro della finestra, nel verde lussureggiante che la circonda, e facendoci tirare, finalmente, un sospiro di sollievo.
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