
The lost daughter – Verità scomode sulla maternità | Venezia 78
Presentato in concorso alla 78ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, The lost daughter è il film scritto e diretto dall’attrice Maggie Gyllenhaal al suo esordio dietro la macchina da presa. Tratta dal romanzo La figlia oscura di Elena Ferrante, l’opera è ambientata in una piccola isola greca in cui Leda (Olivia Colman), docente universitaria di letteratura, trascorre in solitudine le sue vacanze estive, illuminata e accompagnata dalla luce del faro e dalle visite del tuttofare Lyle.

Nonostante la lontananza delle figlie, andate in Canada per stare con il padre, la donna viene travolta da una nuova famiglia, quella dei vicini di ombrellone: nucleo numeroso di parenti – madri, figlie e zie – che con i loro tavoli imbanditi e le grida di bambine invadono la spiaggia e lo spazio privato della protagonista. Leda osserva silenziosamente il panorama di figure così diverse – meno istruite e dai modi rudi – ma al contempo simili a lei, inondata dai ricordi di scelte passate, dolorose e necessarie, che mettono in luce il complesso ruolo materno e le decisioni poco lucide di una donna alle prese con una crisi di coppia, la carriera lavorativa e la vita domestica.

Il film si muove su due linee temporali che mostrano una giovane Leda (Jessie Buckley) alle prese con lo studio universitario e la cura delle figlie; e la Leda del presente, catturata dalle dinamiche del rapporto tra la ragazza Nina e la figlia Elena, non differenti dalle sue. I flashback dei momenti di maternità si intrecciano insistentemente con la vita attuale di Leda, segno di un passato doloroso e difficile da accettare. Questo è evocato da diversi elementi che legano il presente e ciò che è stato: il mare, simbolo di libertà ma allo stesso tempo di minaccia per la possibilità di perdersi, e la bambola, correlativo oggettivo di un senso di colpa legato al comportamento materno assunto dalla giovane Leda, ferita bruciante che sfocia in atteggiamenti infantili e poco razionali. Lo sfondo è quello della piccola isola, con la sua pineta, la spiaggia e i balli nelle piazze: luoghi edenici, aperti e dal sapore liberatorio, di cui tuttavia Leda non riesce a godere, tormentata dal rimorso e dal legame peculiare nato con la famiglia del posto, immersa in un’atmosfera claustrofobica che la perseguita anche in vacanza, lontano da casa.
Oltre la patina dell’angelo del focolare, si insinuano i fallimenti e la crescente volontà di mollare, nei momenti di sconforto e nel rimpianto di una vita senza figli. Leda ci esorta a riflettere su quali siano i tratti del suo personaggio che non accettiamo e, al contrario, quelli che riusciamo a capire e a perdonare, verità scomode perché rivelatorie della nostra natura, ma rassicuranti perché sentimenti comuni e universali.

I rapporti familiari vengono raccontati tramite i corpi, nudi, insabbiati, feriti, con il primo piano di teneri sorrisi e pianti disperati. e con i dettagli di mani che abbracciano e che compiono gesti quotidiani. I volti dei personaggi riempiono l’intero quadro, permettendo di accedere a un’intimità altrimenti negata, ma creando al contempo un ambiente soffocante – fatto di spazi sempre pieni e poco tempo libero –, un horror vacui che continuerà a tormentare Leda finché non si sarà perdonata. I corpi, oggetto di uno sguardo talvolta invadente, sono quelli delle donne, vere protagoniste dell’opera, che restituiscono, con le loro sfaccettature, differenze e conflitti, un’immagine più profonda dell’esperienza femminile del mondo.
The lost daughter è una carezza di conforto per chiunque sappia identificarsi in Leda – così come lei si rispecchia in Nina. Una dichiarazione della normalità del fallimento e soprattutto dell’universalità di certe scelte e fatiche genitoriali, che ci ricorda che errare è umano, e che perdonarsi lo è ancora di più.
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