
Storia del danzatore: dal balletto classico a Pina Bausch
La storia della danza e della figura del danzatore affonda le sue radici in secoli oramai remoti, intrecciandosi inevitabilmente con questioni antropologiche, sociali, politiche e psicologiche. Ad oggi risulta immediato pensare a Pina Bausch come un punto non solo di svolta, ma quasi di arrivo nella danza contemporanea. Che sia per il Tantztheater (teatro-danza) per cui Bausch è globalmente riconosciuta, o per la sovversione con cui l’artista si è sempre approcciata al ballo, va da sé che il suo nome produce un’eco gigantesca in tutto il panorama artistico del Novecento. Pina Bausch sovverte e scardina i dettami tradizionali di ciò che era artisticamente conosciuto come danza, rimodella il palcoscenico con una forza propulsiva nuova e assolutamente unica nel suo genere.
Ma perché Pina Bausch è così rivoluzionaria? Cosa aveva caratterizzato la storia della danza sino a quel momento?
È risaputo che la danza porti e abbia sempre portato con sé il menabò culturale di un popolo, caricandosi di valori e riti che spesso affondano le loro radici in tempi antichi. Prima ancora d’essere considerata artisticamente rilevante, era un linguaggio in grado di veicolare diversi significati. Le emozioni collettive di un popolo o le celebrazioni di qualsivoglia natura (danze pararituali) si manifestavano tramite la danza in un linguaggio che, similmente alla musica, si tinge di una grammatica universale.
Non appare strano, quindi, che nella storia del teatro la figura del danzatore e dell’attore abbiano impiegato più di qualche secolo per distinguersi l’una dall’altra, sfidando tutti i confini della scena teatrale.
La danza delle origini
Nel teatro religioso la narrazione si costruisce su tappe che sono movimenti fisici chiari, paradigmatici e che danno vita a ciò che noi oggi potremmo definire “processione”.
La narrazione è intrinsecamente legata a ciò che il corpo dice, ai suoi movimenti nello spazio e a come in questo agisce e penetra. La manifestazione fisica di un sentimento, perciò, non ha mai potuto prescindere dal movimento, dalla messa in atto di un corpo che è inevitabilmente al centro della scena. Tale manifestazione assume forme più chiare, caricandosi di connotati sempre più definiti. Nel Rinascimento italiano e in tutto il Seicento si assiste, infatti, alla nascita di un vero e proprio corpus di regole e movimenti precisi del danzatore: come emblema di uno status, la danza si pratica prima nelle corti e successivamente nei teatri pubblici che iniziavano ad avere vita proprio in quel periodo. Similmente a un processo di catarsi, diviene simbolo di nobiltà d’animo e il syllabus di cui si compone s’arricchisce di termini provenienti dalla Francia.
Nascono così i primi trattati sul balletto – capostipiti quelli di Domenico da Piacenza e Guglielmo Ebreo da Pesaro – contemporaneamente a jeté, plié, port de bras e altri termini che connotavano i movimenti del danzatore. Similmente alla Commedia dell’Arte, i danzatori erano quindi soggetti a un irrigidimento sempre più decisivo, incastonati in una forma statica che era simbolo da una parte di grazia e bellezza, mentre dall’altra di rigidità assoluta, rigore e immutabilità.

Ottocento e Novecento a confronto: le mille facce del danzatore
Sarà solamente nell’Ottocento che alcuni di questi schemi inizieranno a rompersi, principalmente grazie al Ballet en action, ovvero il balletto romantico, sulla scia della corrente omonima caratteristica di questo momento storico.
Le forme sono più irriverenti e grandiose ribaltando le dinamiche della danza teatrale. Per la prima volta la danza si emancipa e si carica di un fitto contenuto: segue un andamento drammatico, ha una trama, una storia, e segue filologicamente un certo tipo di narrazione. Non è più un puro “esercizio di stile”, per citare Quineau, che per quanto affascinante è totalmente privo di un contenuto travolgente e patetico per il pubblico.
Il regista di questa narrazione, chiamato coreografo e tecnicamente maitre des ballets, assume un ruolo cardine in tutta la conduzione: non è solamente maestro del linguaggio, ma lo declina in un contesto più ampio. Ha in mano una conduzione che scioglie la grammatica resistente del ballo e si trasforma in volontà: dialogica, narrativa, espressiva.
Le prove di questo cambiamento ci vengono fornite da diverse documentazioni dell’epoca, prima fra tutte il periodico veneziano “La Scena. Giornale di lettere, musica, drammatica e coreografia” che, proprio a metà del XIX secolo ci presenta le testimonianze del celebre coreografo, e maestro napoletano, Carlo Blasis. Uomo di grande cultura, Blasis fu estremamente fecondo nella sua attività di teorico e nel 1820 pubblicò uno dei testi più rilevanti della storia della danza, opera che ancor oggi si studia accademicamente: il Traité élémentaire, théorique et pratique de l’art de la danse. Qui si trova un’analisi accurata di tutti i meccanismi del movimento dalle sue origini. Sebbene Blasis fosse molto più vicino a un’ottica classicista del ballo, fedele agli antichi dettami fatti di movenze pulite, riconosce comunque la potenza della nuova onda romantica e della contaminazione che stava subendo inevitabilmente da altri paesi, creando una nuova interessante cogestione sulla scena teatrale.
La sperimentazione e l’incontro/scontro con l’altro, con generi e modi diversi, si manifesta in maggior misura nel Novecento in cui nacquero ibridi interessantissimi. Dal Tango argentino, classificato ai tempi come “la danza del peccato”, il boogie woogie, al cha cha cha: in tutto il mondo l’esigenza di sconfinare nei generi dà vita a un esperimento grandioso.

Perciò, se da una parte all’inizio del ‘900, grazie all’idea di Segej Djagliev, nasce una tra le compagnie di balletto classico più conosciute di tutti i tempi (i “Balletti Russi”), dall’altra vede la luce la danza moderna. Il modo di abitare la scena, da quel momento, fu sostanzialmente differente.
Sebbene la danza moderna non nacque con l’intento di scontrarsi con l’accademicità tramandata sino a quel momento, l’evoluzione di pensiero e l’atmosfera d’innovazione novecentesca contribuirono a ridisegnare in maniera interessantissima le fondamenta del ballo.
Negli Stati Uniti questo spirito invase i palchi di tutta la nazione: Martha Graham, prima fra tutte, fu grande sostenitrice di questo cambiamento divenendo presto una delle ballerine di danza moderna più promettenti del XX secolo. Fondatrice di una tecnica di respirazione basata sul principio di contrazione e rilascio (contraction and release) Graham poneva al centro della sua indagine artistica il movimento. Questo era, indubbiamente, la massima espressione delle emozioni e sensazioni umane e qualificava ancora la danza come mezzo comunicativo eccezionalmente efficace. Il ballerino di danza moderna, facendosi carico di questo movimento, impara a occupare tutto lo spazio intorno a sé: si è liberi da convenzioni formali, qualsiasi zona del corpo può essere mostrata.
Negli stessi anni acquisisce sempre più fama il celeberrimo tataro volante: Rudol’f Nureyev, ballerino dal talento indicibile. Grazie alla sfrontatezza di Nureyev, i confini tra danza classica e moderna si assottigliano come mai prima d’ora, proprio in virtù dell’importanza che il ballerino costruisce sul ruolo della figura maschile nel balletto.
L’uomo non è più necessario al solo scopo di sollevare le ballerine o rendere più agevoli certi passi, ma ha un ruolo cardine in tutta la scena; si sviluppa, cresce, occupa uno spazio ben definito. La storia del danzatore, così, cambia inesorabilmente, non è più ridotto a solo aspetto formale, ma contribuisce con la sua presenza. Nureyev rivoluziona anche i gesti ed i costumi della scena: elimina gli imbarocchimenti, i trucchi pesanti, le parrucche. L’intento è quello di ridefinire un binomio tra anima e corpo, andando oltre alla pura tecnica formale. Il superfluo lascia spazia al fulcro pulsante dell’emozione e dell’azione comunicativa, alla psicologica dei personaggi. Il mettersi in atto danzando è un mettersi a nudo senza filtri.

La storia del Tanztheater di Pina Bausch
In un clima culturale simile è doveroso menzionare il nome di Pina Bausch: ballerina, coreografa e insegnante tedesca. Oggi il nome di Bausch si colloca ormai nella mentalità popolare, simbolo e sinonimo d’innovazione e sperimentalismo. Se il confine tra ballerino e attore era sempre stato particolarmente labile, Pina Bausch riesce a creare un legame fra i due ruoli che diviene manifesto di un genere nuovo, di un microcosmo rivoluzionario. La coreografa è estremamente legata all’espressività del corpo e di qualsivoglia movimento a esso connesso; fragilità e forza diventano due termini antitetici su cui si costruisce la sua scuola.
Negli anni ’70 tale scuola prenderà il nome di Tanztheater, teatro-danza, un vero e proprio nuovo filone della danza contemporanea. I danzatori divengono danzattori. Al centro della scena, non si limitano a riprodurre i passi di un pezzo grandioso, ma a interiorizzarlo, ri-leggerlo, re-interpretarlo; al termine di questo processo i ballerini saranno sia danzatori, sia attori e autori di un’opera nuova. È chiaro che un simile cambiamento è in grado di manipolare tutto i mondo del ballo e di riadattarlo a una lingua ancora nuova, in cui l’incontro-scontro con il teatro non solo è decisivo ma necessario.
Le sacre du Printemps e Le Caffè Mùller, i primi spettacoli messi in scena con questo metodo, hanno un successo detonante.
Il gesto teatrale qui si mischia a musiche e passi, la finalità drammaturgica ha una valenza importante tanto quanto la bellezza della composizione d’insieme. Ad oggi il suo lavoro può essere ammirato nel documentario del 2011 di Wim Wenders dal titolo Pina. Un omaggio a una grande artista e a un mondo che ha saputo cambiare ed evolversi in maniera incredibile.
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