
Cos’è il Jump Cut? Storia, logiche ed esempi
Uno, mille, centomila definizioni
Il termine jump cut indica, generalmente, un’operazione di montaggio filmico tramite cui una porzione di tempo ben individuata viene esclusa alla visione; è un taglio in cui la ripresa è spezzata in due parti e la sezione centrale tra le due è rimossa in modo tale da rendere efficace la sensazione di salto in avanti nel tempo della narrazione. In queste due riprese non c’è differenza di posizione della macchina da presa: le due inquadrature, risultando sostanzialmente identiche, vengono definite anche come “piani gemelli”. Accostati tra loro i due piani creano un falso raccordo, che nel montaggio classico è considerato un errore.
Del jump cut esistono molte definizioni e spesso quelle disponibili sono piuttosto vaghe poiché la tecnica, nel corso della storia del cinema, è stata utilizzata in diversi modi e allo scopo di ottenere effetti differenti ancor prima di raggiungere l’apice della sua popolarità negli anni Sessanta, grazie alla Nouvelle Vague francese. Tuttavia, critici e teorici tendono a riferirsi semplicemente a questa tecnica come uno strumento capace di creare un’ellissi temporale, omettendo determinate fasce di tempo.
L’evoluzione
La maniera più semplice attraverso cui approcciarsi alla conoscenza di questa tecnica è addentrarsi nella sua evoluzione e nell’uso che di questo mezzo è stato fatto nel corso della storia del cinema.
David Bordwell, teorico cinematografico statunitense che opera a partire dagli anni Ottanta, per ripercorrere la strada evolutiva del jump cut ha individuato dei fattori chiave attraverso i quali è possibile discriminare gli usi di questa soluzione, catalogandoli e circoscrivendoli dentro precise epoche. Tra questi: la popolarità del jump cut in termini di riconoscimento e percezione; la capacità del mezzo in questione di assegnare più o meno rilevanza ad uno o più personaggi; la riconoscibilità di questo stile cinematografico all’interno di un’opera filmica, che a sua volta vive dentro un momento preciso della storia del cinema.
In base a questi fattori, Bordwell individua tre diverse momenti storici e forme cinematografiche in cui il jump cut si è distinto per modalità, intenzione ed effetto finale. In quanto mera tecnica nasce con Georges Méliès: nel caso peculiare di questo regista però, non vi è una riflessione sulla continuità narrativa e cinematografica ed il suo intento non indossa alcun tipo di veste provocatoria, quantomeno intesa in senso stretto. L’uso che ne fa è prettamente pratico al fine di spettacolarizzare ancora di più le sue pellicole, per confondere e ammaliare lo spettatore. Al fine di rendere ancora più realistici i mondi fantastici che creava, il regista sfruttava l’artificio del jump cut per restituire allo spettatore uno spettacolo di magia quasi inspiegabile, quindi efficace. Un esempio, in Escamotage d’une dame chez Robert Houdin (1896) una donna, vittima degli esperimenti di un prestigiatore, sparisce letteralmente sotto l’occhio dell’osservatore. Non possiamo dire che con Méliès nasca il jump cut così come lo intendiamo oggi, ma certamente è possibile affermare l’utilizzo di questo sotto forma di trick shots.
Il primo gruppo di cineasti che ha sfruttato questa strategia in modo personale e parzialmente sovversivo è formato dai registi sovietici dell’era di Ejzenštejn. Nei loro film, tra i quali il fantascientifico ante litteram Aelita (Jakov Protazanov., 1924), La corazzata Potemkin (dello stesso Sergej Ejzenštejn, 1925) e L’uomo con la macchina da presa (Dziga Vertov, 1929) il taglio è assolutamente visibile, differentemente da ciò che accade con Méliès. Tuttavia, a livello di studio e ricerca, si è spesso sorvolato sull’aspetto formale di questi film, per concentrarsi sull’area prettamente contenutistica. Difatti, i frequenti tagli che si osservano nell’artificio sovietico venivano considerati solo come strumenti politici atti ad intensificare la ritmica visuale e quindi amplificare il messaggio propagandistico.

Il terzo momento, oltre che il più prolifico, riguarda la già citata Nouvelle Vague francese e specialmente la filmografia di Jean-Luc Godard a partire da Fino all’ultimo respiro. Mentre i sovietici erano interessati alla discontinuità solo nella sua funzione ritmica e ne costruivano la narrazione sfruttando anche ripetizioni e sovrapposizioni oltre che tagli netti, i registi francesi utilizzano i jump cut per muovere in avanti il racconto ad una velocità maggiore e smontare la logica del découpage classico eliminando possibili scene, sia brevi che più estese. Il regista francese Jean-Pierre Melville osservò che i tagli operati dal regista sulla pellicola restituivano allo sguardo una sensazione di immediatezza.
Oltre alla potenza della visualità e dell’intenzionalità provocatoria senza precedenti nella storia di questa tecnica, esistono altri motivi per cui è solo dopo Godard che il jump cut si inserisce nel vocabolario della critica. Tra questi, è fondamentale considerare lo slittamento di sguardo da parte del pubblico nei confronti del ruolo del regista, che passa dall’essere visto come artigiano all’essere valutato in quanto autore, in linea con la nascita e prosperità dell’art cinema. All’interno di questa realtà rientrano le opere di autori europei quali Michelangelo Antonioni, Federico Fellini e Ingmar Bergman.
Alcuni esempi
Per parlare praticamente di questo mezzo tecnico, è utile analizzarne l’uso in base all’effetto desiderato dal regista. Dagli anni Sessanta ad oggi infatti, la tecnica non si è limitata a generare solamente gli effetti di discontinuità ottenuti da Godard.
Un esempio particolarmente calzante di come questa strategia del montaggio possa restituire, per esempio, una sensazione di caos è l’incipit di City of God (Cidade de Deus di Fernando Meirelles, 2002). In questa scena i jump cut sono numerosi e sembrano quasi accavallarsi, per restituire le dinamiche movimentate e iperattive della città che si vuole raccontare.
Questa frenesia può anche, in taluni casi, caratterizzare i movimenti e i gesti dei personaggi stessi, per i motivi più disparati. Si riconosce questa strategia in diverse pellicole di Guy Ritchie, che fa del montaggio frenetico, e quindi anche del jump cut, un suo marchio di fabbrica; ciò è particolarmente visibile nell’introduzione ai personaggi in Snatch – Lo strappo (2000). Ognuno di loro è rappresentato da una serie di azioni che vengono raccontate l’una in fila all’altra ad alta velocità.
Il medesimo effetto è ricercato anche dalle scelte formali relative ad alcune opere di genere horror, come nel remake americano di The Ring (Gore Verbinski, 2002), ma con un obiettivo diverso: il susseguirsi incontrollato dell’avvicinamento del personaggio, dalla televisione allo spettatore, scatena in noi lo spavento. D’altro canto la sensazione d’ansia può appartenere anche solo ed unicamente al personaggio che fa esperienza una determinata situazione; una pellicola recente in cui il jump cut sottolinea l’ansia ed il terrore non tanto dell’utente quanto della protagonista è I care a lot (J Blakeson, 2021). Il personaggio interpretato da Rosamund Pike è bloccato dentro la propria auto, che è stata gettata dentro un lago. Il jump cut viene in aiuto della narrazione emotiva: per mostrare come tenti disperatamente di salvarsi esso viene alternato a delle schermate nere, come se la protagonista, vittima di un calo d’ossigeno, cominciasse a perdere coscienza di ciò che la circonda.
Una tensione simile è raggiunta tramite il jump cut anche in Moon (Duncan Jones, 2009): il protagonista è in preda al panico alla ricerca forsennata di una possibile camera segreta che è convinto sia stata nascosta da qualche parte sull’astronave.

Il falso raccordo può venire in aiuto dell’autore quando è suo interesse manifestare lo stato d’animo di un personaggio durante lo scorrere delle stagioni o, più generalmente, mentre il mondo intorno a loro si trasforma, che si tratti della città in cui vivono o delle persone che frequentano. In due pellicole di genere teen di formazione come Juno (Jason Reitman, 2007) e Lady Bird (Greta Gerwig, 2017) questa strategia si fa viva: in entrambi i casi, i registi seguono le due giovani donne protagoniste nel susseguirsi dei mesi, indagando il cambiamento del loro stato umorale.
Infine, il jump cut può essere utilizzato allo scopo di immergere lo spettatore in una scena o in modo tale da far sì che il pubblico s’identifichi con il personaggio. Un esempio di questa soluzione è evidente nella scena in cui Ritchie si rade la barba, preso dallo sconforto, in I Tenenbaum (Wes Anderson, 2001). All’azione in questione, pur non essendo essenziale al fine della trama, Anderson dona particolare attenzione. La scelta stilistica non è mai casuale, e l’estetica di questi shot lascia spazio a molteplici interpretazioni sulle intenzioni del regista, che potrebbero riguardare la generazione di una comunione di sguardi tra quello di Richie e dello spettatore o una sovrapposizione tra il gesto che il personaggio attua su di sé, recidendo ogni pelo superfluo, e la manipolazione della pellicola, tagliata – appunto – dal regista Anderson.
Infine, è interessante notare come a partire dal jump cut siano stati ideati dei tagli di montaggio che, pur imitandone la forma, lo rielaborano per sviluppare nuovi dispositivi stilistici del racconto. Parliamo per esempio del match cut: questo, oltre al taglio, prevede l’alternarsi di due elementi della narrazione che, pur vivendo in momenti diversi del tempo e dello spazio, grazie a questo strumento convivono nella medesima scena. Questa strategia viene utilizzata in maniera particolarmente efficace in molti film, tra cui Run Lola Run (Tom Tykwer, 1998).
Anche Stanley Kubrick fa uso del matchcut nella celebre scena di 2001: Odissea nello spazio (1968) in cui l’osso lanciato in aria si sostituisce, nella sua orizzontalità, all’astronave che galleggia nello spazio.
Fonti:
- Jump Cut: a luculent discussion di Sayar Banerjee
- Match Frame and Jump Cut di Jan Speckenbach
- G. Carluccio, L. Malavasi, F. Villa (a cura di), Il cinema. Percorsi storici e questioni teoriche, Carocci editore, Roma, 2015
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[…] Filmato esclusivamente in camera a mano, con uno speciale sistema di illuminazione che permette di prescindere da fonti di luce aggiuntive, DAU. Natasha genera una fortissima impressione di realismo allestendo una visualità vacillante, discontinua, perturbata da primi piani famelici e ripetuti jump–cut. […]
[…] che per mezzo di tecniche care al cinema francese degli anni Sessanta – quali, fra le altre, il jump cut e il montaggio concettuale – caratterizza la pellicola sul piano […]
[…] Merita soffermarsi anche sull’architettura della narrazione filmica, costruita attraverso un legame fondativo con il tempo della narrazione diegetica. Le due linee di narrazione, infatti, aderiscono perfettamente, per cui la dinamica raccontata dalle immagini corrisponde al tempo reale. Gli 8 minuti di durata complessiva di Brodo di carne contengono 8 minuti reali di azione, senza tagli di montaggio o jump cuts. […]