
Soul – Pete Docter alla ricerca dell’ennesima scintilla Pixar
Per la terza volta nel tempo di un quinquennio la Pixar ha deciso di esplorare in un suo film uno spazio liminale all’esperienza di vita. Per primo è venuto Inside Out nel 2015, alla cui regia trovavamo già il Pete Docter che cura insieme a Kemp Powers anche la direzione artistica di questo Soul (oltre alla sceneggiatura, alla quale si aggiunge anche Mike Jones). L’opera, questa, che sta nel mezzo e con la vita è quella che ha di più a che fare in quanto vi si immerge, letteralmente, all’interno. In Inside Out si esploravano le ragioni empatiche, la gestione delle emozioni e dei sentimenti calibrate a livello qualitativo e analizzate da uno stato del dentro l’esistenza, dove il trovarsi al mondo è una questione di alchimie, di attimi, tanto fragili quanto potenti.
Poi nel 2017 arriva il Coco di Lee Unkrich e Adrian Molina, uno dei film più maturi dello studio d’animazione, che durante il Día de Muertos approfitta per aprire una parabola sul dopo-la-vita. Nell’emozionante viaggio che Miguel compie nel regno dei morti è il ricordo (che gioca un ruolo fondamentale già in Inside Out) l’unica vera fibra dell’eternità e unica risposta che è concessa conoscere a chi vive ancora. Soul giunge a chiusura di questo trittico ideale, purtroppo solo in streaming su Disney+. Questa volta il film si ferma però sulla soglia un attimo prima della fine, quell’Altro-Mondo che è l’al di là che appunto già Coco ci aveva mostrato.

Joe Gardner (Jamie Foxx) tira uno strattone per sottrarsi alla funesta sorte che stava per toccargli e si ritrova nell’Ante-Mondo (il Great-Before, ciò che viene prima di tutto). Arriva quindi per ultimo il viaggio nel pre-vita, la valle dai connotati esistenzialisti che Joe si trova a percorrere nel tentativo di far ricongiungere la propria anima al corpo lasciato in stato comatoso sulla Terra.
Joe è infatti finito dritto in un tombino nel giorno più emozionante della sua grigia esistenza, fatta di un lavoro insoddisfacente da insegnante (ma come, ora hai lo stipendio fisso, l’assicurazione sanitaria, la pensione! L’American Dream agli occhi di una madre) e apparentemente privo dell’estro che riesce a sprigionare solamente attraverso la sua passione: il jazz.
È finito nel tombino poco dopo aver ricevuto dalla grande Dorothea Williams (Angela Bassett) l’opportunità di suonare nel suo quartetto, proprio nel momento meno sperato. E infatti l’illusione dura poco, ora Joe vaga disperatamente in questo stato della non-esistenza governata dalla freddezza dei quanti (fondamentali nella cinematografia contemporanea) e dalla loro azione regolatrice sul tutto.

Qua persino le anime sono faccenda del determinismo, assemblate e ricondotte da queste entità tutte uguali (gli Jerry) a uno stato prettamente meccanicistico delle cose prima di venir fiondate sulla Terra alla ricerca di fortuna. Quello di Joe nell’Ante-Mondo diviene ben presto il percorso di ricerca dello scopo (nella sua accezione più ampia), contestuale alla ricerca della ‘scintilla’, l’ingrediente finale da affidare alla personalità dell’anima ribelle di 22 (Tina Fey), che di scendere nel mondo proprio non ne vuole sapere. Ma in questo stato pluridimensionale le trame e i tormenti degli umani sono cose incomprensibili, bazzecole da liquidare sarcasticamente così come farà uno dei tanti Jerry senza forma e senza definizione.
Il ragionamento che Docter vuole fare sopra la ragione dell’esistere “qui e ora” è chiaro sin da subito. Lo script sottolinea in maniera piuttosto lapalissiana come l’unica motivazione dell’essere sia ravvisabile nell’essere stesso, nella più classica definizione del carpe diem che tanta gloria narrativa ha conosciuto. Se prima c’è il mero calcolo, l’atto combinatorio della fisica dei “tempi moderni” e dopo c’è l’inconoscibile che è meglio far rimanere tale ancora per un po’, il senso deve essere per forza quello che rimane nel mezzo.
Fosse questo anche il solo gustare un pezzo di pizza calda e filante, l’ascoltare la storia del prossimo, il lasciarsi rapire dalle luci che riflettono come un caleidoscopio fuori dalla finestre. Insomma, rinunciare per un attimo alla costruzione degli schemi, astrarsi il più possibile e respirare l’aria dell’improvvisazione premendo i tasti della vita di giorno in giorno.

Soul di certo smuove qualcosa dentro perché si carica di quella magia di puro stampo Pixar, che eppure in questa occasione rivisita alcuni immaginari visivi e sensoriali del proprio repertorio. Ma lo fa soprattutto perché trae una somma consolatoria del percorso dell’esistenza, usufruendo di alcune scorciatoie emotive in particolar modo verso le battute conclusive quando è chiamato a compensare in qualche modo lo spettatore.
Dell’ideale trittico di cui parlavamo a inizio articolo è il film che probabilmente traccia la linea meno delicata, meno fine nell’intercettare una risposta che di fondo è la più difficile (e quindi terribilmente banale) da dare. Pete Docter trova anche stavolta la sua scintilla, seppur più fioca perché scaturita da un fuoco meno ardente tra quelli accesi nel recente passato.
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