
Monsters & Co. – Sui vent’anni di Pete Docter in Pixar
Pixar è stata l’assoluta protagonista dell’ultimo quarto di secolo di animazione statunitense. Accolta dall’industria cinematografica con Toy Story (John Lasseter, 1995), nientemeno che il primo film realizzato totalmente in grafica 3D, la casa di produzione non ha avuto alcun segno di cedimento né di rinuncia allo stile, nonostante la repentina acquisizione da parte di Disney e il grande cambio generazionale attraversato. Anzi, proprio un’opera importantissima come Monsters & Co. (2001) – uscita esattamente vent’anni fa – ha visto il proprio regista, Pete Docter, salire nuovamente in cattedra a distanza di un ventennio con Soul (2020), film di diverse ambizioni e dalla voce autoriale maturata; un segno di come il “tocco” dello studio e dei suoi autori resista al tempo, pur mutando nella sensibilità. Una sensibilità che già allora si poneva una domanda ancora oggi quasi del tutto inedita per un certo tipo di animazione (occidentale): come essere presi sul serio anche dagli adulti.
A partire da Monsters & Co. Pixar e Docter hanno iniziato a giocare a carte scoperte col pubblico, cercando di coniugare un cinema d’animazione mainstream a una coraggiosa narrazione in grado di parlare in modo equilibrato tanto ai bambini quanto a persone più mature. Pixar aveva già esplorato questa strada con A Bug’s Life (J. Lasseter, 1998), film di cui spesso si sottovaluta la maturità in termini di target di riferimento. Lo sforzo fatto per raffinare la scrittura trasforma infatti un semplice adattamento di La cicala e la formica (Esopo) in una sorta di versione entomologica de I sette samurai di Akira Kurosawa (1954), con uno stile narrativo e visivo talvolta inaspettatamente ansiogeno e inquietante – l’esercizio violento e deliberato di potere di Hopper e la sua fine quasi orrorifica non possono non aver segnato una cesura netta nel consumo d’animazione di un bambino. Con Monsters & Co., Pixar sente ancora di più il richiamo dell’opportunità di portare l’animazione a un pubblico trasversale, liberandola almeno parzialmente dalla gabbia di genere che i Classici Disney le hanno costruito intorno.

L’ambientazione scelta è una fabbrica energetica (nel mondo parallelo dei mostri) e il microcosmo dei suoi dipendenti, tra ambizioni sociali e perversioni dell’ansia capitalistica di produzione, un universo impiegatizio molto più familiare agli adulti che ai bimbi – anche nella sua rappresentazione, semplificata ma non meno realistica (un mondo prolifico su cui Pixar è tornata a puntare dodici anni dopo con il buon prequel Monster Universiy e, quest’anno, con una serie sequel distribuita da Disney+). Dall’altra parte, in dialogo diretto con l’infanzia, oltre alla bimba Boo si presenta nuovamente la dinamica che diventerà un vero e proprio tormentone autoriale presso Pixar, ovvero la costruzione di mondi stratificati in cui si può solo lavorare di fantasia e suggestione: se in Toy Story era la “voce” del giocattolo preferito e in A Bug’s Life era il mondo degli insetti – così rapportabile in scala al nostro –, ora è il mostro che si nasconde nell’armadio a diventare una realtà sociale articolata. E se il bambino si confronta con mostri immaginari, gli adulti affrontano invece quelli che sono i mostri della vita di tutti i giorni, spogliando i propri demoni di giacca e cravatta e vestendoli di artigli, peli ispidi o squame. Vale la pena di menzionare anche la bellissima dinamica della “soglia”, tanto dello sguardo quanto fisica, che si nasconde dietro alle porte, una suggestione che il miglior Cinema ha sempre corteggiato come limite tra realtà e fantasia o, per meglio dire, tra realtà e pellicola.
Distanti dalla struttura della fiaba dalla quale il Classico Disney ancora oggi fatica a emanciparsi, già un ventennio fa Pete Docter e Pixar consolidavano una libertà espressiva inedita per l’animazione statunitense e andavano sempre più cercando – non senza qualche inciampo – un pubblico più ampio, affrontando il dilemma di cercare una voce che rispettasse la sensibilità di diverse età e generazioni culturali. Un problema che Toy Story sembrava già raccontare metaforicamente nell’ansia che i bambini, una volta grandi, avrebbero abbandonato i loro giochi. Quell’ansia si faceva un vero e proprio limite in Monsters & Co. e nella malinconia dell’addio di Boo, simbolo della stessa perdita della fantasia che tutti affrontiamo quando le porte per i mondi costruiti nell’infanzia crollano per sempre. E questo è un po’ lo spettro che Pixar si ritrova ad affrontare a tutt’oggi: al fianco dei nuovi spettatori ci sono millenial e gen z, fan della prima ora divenuti giovani adulti o trentenni. È possibile rivolgersi anche, o direttamente, a loro? Come muta il linguaggio dell’animazione nell’affrontare cambi generazionali così netti e repentini?

(Per queste domande, nello specifico, sono esemplari due recenti film di punta di Sony Pictures Animation, Spider-Man – Un nuovo universo e I Mitchell contro le macchine, in grado di rapportarsi perfettamente al linguaggio dei nuovi media e all’imperante dimensione della testualità)
Inside Out (2015) è stato il primo film con cui Pete Docter ha riaperto parzialmente questo dibattito, caratterizzando in modo giocoso e colmo di gag l’iper-dinamica psiche di un’adolescente e, proprio come l’adolescenza, ponendosi esattamente a metà tra due generazioni. Soul ha infine sancito una svolta netta e forse inattesa nel registro di Pixar ma un’apoteosi per il percorso del regista, raccontando un dramma esistenziale veramente comprensibile solo da un adulto, con pochi momenti espressamente rivolti ai bambini e una scrittura matura e sottile. Questo non è certo un problema per quanto riguarda l’economia del film – chi scrive non pensa che ci sia una sostanziale differenza qualitativa tra Monsters & Co., Inside Out e Soul –, ma è un problema per quanto riguarda la progettazione creativa dello studio. Con chi si vuole comunicare di preciso? E il ritorno alla fiaba nostalgica più limpida e meno pretenziosa con Luca (E. Casarosa, 2021) è il colpo alla botte che mancava dopo il temerario colpo al cerchio di Soul o è una parziale “resa” di fronte a un pubblico non così flessibile e pronto?

È possibile che sia un non-problema è che tutto questo ragionamento risulti essere semplicemente una sovrainterpretazione di una situazione che, in fondo, potrebbe far bene a Pixar: comunicare a due fasce di età diversa, ampliando il pubblico potenziale. D’altronde però potrebbe continuare a delinearsi una prospettiva ben diversa, per esempio con un altro film come Soul che pur nella sua bellezza fa storcere il naso a una rilevante porzione di pubblico, non preparato a sufficienza ad accogliere un cartone animato sulla crisi di mezz’età (banalizzando). Qui abbiamo, se non altro, messo in luce come Pete Docter sia stato probabilmente fin dall’inizio l’autore più coraggioso di casa Pixar, sempre pronto a elevare le proprie opere a un livello più complesso. Quanto a noi spettatori (sognatori), invece, si paventa un completo risveglio autoriale di una Pixar visionaria come non mai, in grado di sperimentare sui generi con l’animazione, di porsi al di là delle distinzioni di target e, sicura della forza del brand, di utilizzare la propria autorevolezza per dettare nuove tendenze nell’animazione, tendenze che aprano a un futuro di emancipazione e libertà per il linguaggio animato non indipendente. Ma, tutto sommato, potremmo anche accontentarci di altri gioiellini come il buon vecchio Monsters & Co.

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