
The Mandalorian – Capitolo XXII – Basic
Star Wars ha 46 anni, portati bene. Nonostante l’evidente imbellettamento ricorrente di decennio in decennio che mantiene aggiornati e freschi i suoi tratti caratteristici, esso, inteso come universo narrativo, è manchevole di un elemento comune a quasi tutti gli universi fantasy dal ‘900 a questa parte: una lingua artistica. Ma lo sapete che il klingon – una delle lingue di Star Trek – ha una sua grammatica specifica, nonché inflessioni dialettali, regionalismi ed errori comuni tipici di qualunque altra lingua? Per non parlare delle innumerevoli lingue di Arda, la cui conoscenza o ignoranza spesso fa la differenza per una buona o cattiva ricezione delle opere tolkeniane.
E l’universo di Star Wars? Nonostante la moltitudine di civiltà, pianeti ed Imperi gli autori lucasiani non si sono mai preoccupati di redigere una lingua comune. E non che essa non esista nella narrazione, ma appunto fa solo questo: esistere senza consistere. Parliamo del Basic, una lingua artistica di cui sappiamo spaventosamente poco: essa è molto simile all’inglese, ha caratteri aurubesh e, almeno nel vecchio Canone, conosceva qualche variazione dialettale, guarda caso proprio tra i mandaloriani. Ora, assumendo che il Basic sia non solo simile ma del tutto sovrapponibile, almeno foneticamente, all’Inglese, chiediamoci quali siano le implicazioni di una simile scelta. La prima e più immediatamente intuibile è che nella galassia la maggior parte degli abitanti parla Inglese, la seconda, e non è scontato come potrebbe sembrare, è che non tutti parlano Inglese.

Il capitolo XXII di The Mandalorian, Guns for hire, (gli AC/DC ringraziano) riesce a rendere l’antropologia un’action figure pregiatissima e godibilissima fin dai primi minuti. Due amanti, le cui razze e civiltà sono da secoli divisi da odio e guerre, sono costretti a cedere all’imperio di una lingua franca, anzi due. Laddove il Basic viene schernito, sia pure elegantemente, al minuto 04:00 («Non volevo mancare di rispetto. Il Basic non è la mia lingua madre»), interviene presto la lingua della supremazia fisica o comunque armata, qui in veste di “mandaloronin” con tanto di fregata imperiale. Viene messa in scena quindi l’assenza di civiltà e la dittatura del guadagno che si contrappongono al nuovo, due razze storicamente nemiche che cercano di incontrarsi, sia pure nella sfera romantica e individuale. Qui il Basic è un livellatore che annulla le unicità e le peculiarità, proprio come fa lingua Inglese a livello politico. C’è poi un altro Basic, più sottile perché consistente l’episodio, che emerge lateralmente mentre si snoda la vicenda principale.

Su un pianeta che vuole essere neanche troppo velatamente un ricettacolo di piaceri (Plasir), i nostri tre protagonisti vengono chiamati a risolvere una potenziale crisi tecnologica. La crisi, non troppo sorprendentemente, si rivela di tipo politico e ancora una volta è la lingua a giocare un ruolo essenziale (vedi gli Ugnaught). Risolta la crisi (e goduto appieno dei tre cameo che da soli fanno il budget dell’episodio), LA protagonista almeno di questa stagione ci mostra l’importanza di una lingua come il Basic o l’Inglese nel momento in cui parliamo di identità di genere o di altro genere. Perché voi come lo tradurreste “The Mandalorian“? Il Mandaloriano? La Mandaloriana? L’essere indefinitamente della cultura mandaloriana? È chiaro da almeno tre episodi che questa terza stagione parli della rinascita di Mandalore sotto la guida di Bo-Katan, ma altrettanto importante è ciò che Bo-Katan rappresenta a livello culturale. Ella non è una leader o un esempio da seguire, men che meno una mandaloriana autentica viste le innumerevoli contraddizioni che ruotano attorno alle sue vicende (bene che si sia risolta la questione della Darksaber con Din Djarin, ma come la mettiamo con Sabine Wren in Rebels?) bensì una giocatrice.

Da almeno due lustri, il cinema e la TV lo urlano a gran voce (e recenti uscite come Super Mario Bros e Dungeons & Dragons ce lo confermano): i nuovi protagonisti delle storie sono i players, ovvero coloro che giocano a una partita infinita fatta di crescita e decrescita, interazioni più o meno importanti e in generale di esperienze profondamente personalizzabili. Se una volta non era importante la meta ma il viaggio, ora ciò che conta non è vincere o perdere ma continuare a giocare. È il gioco, inteso come quest (e side-quest come questo episodio), l’elemento centrale di questa stagione nel quale seguiamo la progressione di un personaggio che fino all’anno scorso era un NPC. Ora il personaggio è sbloccato, giocabile e personalizzabile mentre il gioco non si arresta mai né ha profondamente cambiato il suo modo di essere. E per questo dobbiamo ringraziare il Basic galattico, che ci dice a che gioco giochiamo ma lascia aperta la partita a tuttə.
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