
The French Dispatch – Wes Anderson tra simmetria e passione
The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun – meglio noto come The French Dispatch – decimo attesissimo lungometraggio di Wes Anderson, è stato presentato in concorso all’ultima edizione del Festival di Cannes. Si tratta di un’opera tripartita, che narra le vicende di un gruppo di giornalisti del supplemento settimanale di una testata statunitense con sede centrale nel Kansas.
Si parte quindi da uno sguardo straniero e in qualche modo esterno al micro-mondo in cui è ambientato: penne statunitensi che descrivono la Francia di fine anni Sessanta. L’estraneità, tratto fondamentale di tutta la fauna narrativa andersoniana, è qui dichiarata a priori. La condizione di osservatore esterno non è più un tratto esistenziale del lobby boy, dello scout recalcitrante o di una scrittrice depressa, bensì una contingenza lavorativa già introiettata e quindi, in qualche misura, superata.

Più che un film sul giornalismo, si può dire che The French Dispatch sia un film che si legge e si sfoglia. Basterebbe soffermarsi sulle dimensioni para-testuali per notarlo: i quadri che inaugurano ogni capitolo-sezione, le didascalie in campo ma soprattutto i sottotitoli che, traducendo la lingua francese, si ribellano alla parte bassa del riquadro per troneggiare al centro dello schermo, tra i due volti di Seydoux e Del Toro, ad esempio.
Il tutto è dichiarato fin dal principio: ogni capitolo è una sezione editoriale, come se si volesse cambiare il supporto del film, dal video al cartaceo. È un’ode alla scrittura e, per stessa ammissione di Anderson, un gesto di amore per il giornalismo, ma non solo. I sottotitoli attivi non sono che la trasposizione para-testuale dell’inedito bisogno di Anderson di superare il suddetto sentimento di estraneità e distacco dei suoi personaggi. Come se, dichiarando in partenza una diversità linguistica e culturale, motivando quindi una differenza sostanziale tra attanti, Anderson assolvesse sé stesso e i suoi personaggi e, paradossalmente, li concedesse al contatto.

Sono giornalisti dislocati quelli del French Dispatch, osservatori a loro volta osservati – sono narratori ma la sempiterna voce narrante andersoniana è di Anjelica Huston, esterna alla diegesi – e quindi, inconsapevolmente protagonisti. Illusi di essere intonsi dalla realtà nella stessa misura in cui il cinema di Anderson ha spesso recalcitrato verso un addentrarsi emotivo nei suoi personaggi, si troveranno ad essere veri e propri oggetti-soggetti, creatori e al contempo parte integrante di una narrazione: è la logica alla base del reportage, ma è anche del processo artistico più sentito.
Il film, per questa suo attestare una fase nuova della narratività di Anderson, in cui i personaggi sembrano avere finalmente il coraggio di soffrire oltre il loro essere eternamente bambini, risulta pieno di criticità e fondamentalmente caotico, respingente nella sua divisione editoriale. In fondo, per quella che è l’abitudine ortografico-simmetrica di Wes Anderson, questo tipo di ambientazione e storia sarebbe stata ottima per accomodarsi nell’estremizzazione di questi tratti visuali. In effetti, la cura per il dettaglio sembra crescere in misura esponenziale di film in film, e la solita predilezione per la simmetria e la geometria della composizione del quadro non soccombe neanche in questo ultimo film. Ma il dato eclatante è che qualcosa dirompe nell’esattezza miniaturista dell’Anderson frontale e nuovo respiro è dato alla variazione, all’uso di espedienti filmici diversi e inediti per la carriera così visivamente connotata del regista di Houston.

Innanzitutto, il rapporto tra il bianco e nero e l’immagine a colori è forse il tratto più semanticamente denso di tutta l’opera. Ovviamente il riferimento è sempre alla carta stampata, all’alternanza del bianco nero dello scritto e del colore delle immagini o delle pubblicità, ma non è questo il punto. L’uso del colore, fulmineo e lampante, nevrastenico nel suo imporsi per poi scomparire, quasi sperimentale nel suo non motivarsi chiaramente, non è solo da intendersi come attuazione del binomio passato-futuro, ciò che è vecchio, contro ciò che è nuovo, ma piuttosto come resa visiva espressionista del sentimento, del genio, dell’epifania passionale.
In fondo, proprio come Anderson si sta confrontando con punti di vista più maturi sulla materia umana, tutta l’opera parla del confronto tra l’individualità e il nuovo, non solo nella sua accezione giornalistica di news, ma piuttosto come dato imprevisto, inaspettato, lo scoprire una visione, un’età e infine un sapore nuovi e che credevamo distanti o impossibili. Se il celeberrimo stile rigoroso di Anderson non è che un richiamo all’ordine, una circoscrizione ironica del sentimento all’interno di una regola che ne limiti i danni, che prenda in giro il dolore e quindi lo esorcizzi, questi graffi espressivi di The French Dispatch, sono da considerarsi una rivoluzione.

Dunque, soggettive con una macchina a mano imperfetta irrompono nei momenti di rabbia aggressiva oppure di amore passionale, inquadrature oblique storcono il mondo retto e parallelo dell’Anderson più conosciuto e al sicuro, panoramiche a schiaffo e impensabili cambiamenti di fuoco sottolineano l’incontro con l’amata mettendo da parte gli abitudinari zoom a riquadro. Lo stile visivo pittorico e geometrico, pur rimanendo massivamente preponderante per tutto il film, sembra ora slacciarsi con naturalezza, lasciando interstizi e pertugi ad un uso della materia video quasi avanguardista, proprio come si farebbe su una pagina.
La parte più fluida del film è quella che narra la contestazione studentesca del Sessantotto, nel piccolo sotto-mondo del quartiere “stravacco”, dove il giovane Zeffirelli B. (Timothée Chalamet) è guida dei sentimenti insurrezionalisti dei suoi coetanei. Sfida polizia e potere dei padri giocando a scacchi, seguendo un ordine simmetrico e precostituito quindi. È vitale e dirompente, ma Anderson sa benissimo che è un’illusione, una chimera (o per lo meno, prima di fare la rivoluzione si deve controllare i refusi). Quel suo guardare al “toccante narcisismo dei giovani” con uno sguardo nuovo, meno attanagliato dalla regola visiva a cui ci ha abituato da I Tenenbaum in poi, è l’attestazione di una nuova presa di coscienza d’autore: non ha più senso considerare il poetico come qualcosa di negativo, non ha più senso ironizzare il dolore e sublimarlo nella forma così come, citando Zeffirelli B, non ha più senso provare imbarazzo dei nuovi muscoli.

Quest’opera – che tra le altre cose ha un cast eccezionale, ben rodato, catturato con affetto dal regista – attesta la fase di crescita che sta vivendo Anderson, anche senza che nessuno lo abbia preteso. Sarebbe stato più facile scegliere una sceneggiatura di ferro, inespugnabile, come quella di Grand Budapest Hotel, invece ha optato per un film situazionista, dove le traiettorie di vita si intercettano ma poi bisogna essere pronti a perderle a costo dello strazio, proprio come fa un giornalista nella sua intera carriera. In fondo però, così come, nel film del 2014 la narrazione iniziava con la lapide del misterioso “autore” dipartito, anche The French Dispatch si inaugura con la morte dell’editore capo interpretato da Bill Murray, come se anche a livello narrativo Wes Anderson volesse contestare l’idea stessa di autorialità, di padronanza certa e fissa di un testo.
Ma se in Gran Budapest Hotel la morte si faceva simbolo di un’incapacità di narrare, in quest’ultimo film non è più un tratto decadente, bensì un invito all’agire liberi per i suoi personaggi così romantici, un omaggio al loro essere adulti e degni del proprio racconto. Quel “bisogno biologico di libertà che è sfociato in simbolismo” di cui parla il commovente personaggio interpretato da Frances McDormand, ha qui una promessa di respiro futuro. The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun, col suo sguardo affettuosamente antropologico riesce a far dimenticare la natura divisiva e in fondo respingente della narrazione, perché considerando l’intera carriera di Wes Anderson, risulta chiaro come questo sia il suo film più consapevole del tempo che passa e quindi più passionale di sempre.
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[…] The French Dispatch sembra un film girato su carta, si legge e si sfoglia come il giornale attorno al quale ruotano le vicende che narra. Già, l’atto del narrare è la materia stessa del film, vero e proprio abisso di cornici, mosaico di storie riportate. Come se per Anderson, nella modernità, fosse ineluttabile fruire la vita, letargica, romantica o nevrotica che sia, solo attraverso un’enunciazione, un racconto dell’esistenza che surclassa l’esistenza stessa. Tutto ciò è un corrispettivo esatto della geometrica caoticità dei piani Andersoniani, del suo incastonare sottomondi d’azione nell’inquadratura. The French Dispatch, che inizia e finisce con la medesima morte, è un’impaginazione esistenziale che coccola i suoi personaggi prima che cadano nel baratro e nella baraonda, ma soprattutto, è un racconto di mille racconti che commemora ed esalta l’atto di scrivere. Matteo Bonfiglioli / Leggi la recensione […]