
La Rivoluzione di Mejerchol’d
Così scrive delle lezioni di Vsevolod Ėmil’evič Mejerchol’d, il regista cinematografico e suo allievo Sergej Ejzenštejn: siamo nella prima metà del Novecento, momento di nascita della regia teatrale, in cui i primi grandi registi teatrali sono visti come padri e maestri, fonte di amore e ispirazione per i loro allievi, e inseriti nella società con il ruolo di guide carismatiche.

Mejerchol’d nasce nel 1874 nella città russa di Penza e, prima di essere maestro, è stato a sua volta allievo: dopo l’apprendistato nella scuola diretta da Vladimir Nemirovič-Dančenko e Konstantin Stanislavskij, viene chiamato a far parte della compagnia del Teatro d’Arte, che i due registi avevano appena fondato nel 1898 a Mosca. Nel 1902 Mejerchol’d fonda la sua compagnia, assumendo il ruolo di regista. In questi anni emerge la visione innovativa di Mejerchol’d, che si scontra con il suo maestro Stanislavskij: Mejerchol’d era interessato a sperimentazioni della recitazione e della regia in senso simbolista, andando oltre il criterio mimetico-rappresentativo, a cui invece erano legati Stanislavskij e il Teatro d’Arte. La vocazione allo sperimentalismo e all’innovazione di Mejerchol’d renderà sempre difficile il suo rapporto con attori e critica: è il destino di chi è troppo proiettato nel futuro rispetto al proprio tempo presente. Perciò Mejerchol’d, chiamato dalla grande attrice russa, Vera Kommissarževskaja, a guidare la sua compagnia, lascerà presto il posto offertogli, proprio per incomprensioni avute con la diva. Mentre lavora nei teatri imperiali di San Pietroburgo, Mejerchol’d nel 1914 fonda un proprio Studio teatrale e una rivista, per portare avanti le sue ricerche nell’ambito della sperimentazione di nuove forme di gestualità.

Nel 1917 Mejerchol’d viene travolto dalla Rivoluzione russa: ritiene che il teatro debba esprimere il cambiamento in atto, andando incontro alla vita e alle persone. Il teatro di Mejerchol’d diventa politico e necessario: non soltanto per il popolo, ma del popolo, che manifesta la sua presenza attraverso il teatro, espressione della nuova classe sociale proletaria. Anche il teatro viene rivoluzionato. L’azione politica diventa simbolica attraverso la performance teatrale: è ciò che succede durante il grande spettacolo di massa – organizzato da Nikolaj Evrejnov durante il programma dell’Ottobre teatrale di Mejerchol’d del 1920 – per rimettere in atto la presa del Palazzo d’Inverno; l’evento fondativo del nuovo ordine vigente viene ripresentato e quindi si fissa nella memoria delle persone, ribadendo la sua importanza.
Il teatro di Mejerchol’d si sovrappone alla Rivoluzione: vengono meno i confini tra arte e vita. Il corpo dell’attore deve essere libero – proprio come lo è l’uomo – da gesti e azioni quotidiane stereotipate, per recuperare l’immediatezza perduta: Mejerchol’d teorizza il metodo della biomeccanica, un allenamento fisico, basato su esercizi ginnici, attraverso cui il corpo dell’attore recupera autenticità e verità, che può quindi comunicare durante la performance. La vocazione pedagogica di Mejerchol’d porta alla nascita di un giovane repertorio teatrale sovietico, aperto alle innovazioni europee che vedevano la centralità e il rinnovamento del corpo e delle azioni dell’attore.

Con la salita al potere di Stalin, la Rivoluzione si trasforma in dittatura e viene meno la libertà: anche l’arte, ormai unita indissolubilmente alla politica, perde la sua libertà di espressione. Sono gli ultimi e difficili anni di Mejerchol’d: il regime vede in lui un nemico dell’Unione Sovietica, poiché era fautore di un teatro straniero, che si allontanava dal realismo della drammaturgia ufficiale del regime. Il suo coinvolgimento politico non rende possibile la distinzione tra arte e politica: Mejerchol’d diventa una vittima del regime proprio in quanto uomo di teatro, quindi impegnato politicamente. In suo aiuto interviene il suo maestro Stanislavskij, che però muore nel 1938. Mejerchol’d, che, nonostante gli scontri e le divergenze, aveva sempre nutrito ammirazione e affetto per il suo maestro, scrive: «Avrei voluto correre, solo, lontano da tutti e piangere come un bambino che avesse perso il padre»[2].

Il 20 giugno 1939 Mejerchol’d viene arrestato. Dopo mesi di torture e un processo farsa, viene condannato a morte e fucilato il 2 febbraio 1940.

Negli anni in cui è vissuto Mejerchol’d era diffuso un certo fervore per la partecipazione alla vita politica e sociale della comunità. Il coinvolgimento politico sembrava una scelta obbligata per chi volesse essere testimone del proprio tempo e partecipe dei cambiamenti in atto: l’arte corrispondeva alla vita, e la vita privata degli artisti coincideva con quella pubblica, con tutti i rischi e i pericoli che ciò poteva comportare. Mejerchol’d è testimone della potenza ambivalente del teatro e dell’azione performativa che, in ambito politico, può essere fautrice di un cambiamento positivo e inclusivo, ma anche di un cambiamento che, se nelle mani sbagliate, si può trasformare in esclusione e imposizione.
Mejerchol’d ha voluto correre il rischio e mettere davanti a tutto l’arte per – o meglio – delle persone, interpretando il proprio tempo, con lo sguardo rivolto al futuro. Allora, forse, la sua fine, è in realtà un inizio, ancora oggi, anche per noi.
[1] M. Schino, La nascita della regia teatrale, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 156.
[2] A. M. Ripellino, Il trucco e l’anima. I maestri della regia nel teatro russo del Novecento, Einaudi, Torino 1974, p. 405.
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