
Percorsi di regia teatrale nel Novecento
Al Novecento si riconduce la nascita della Regia teatrale, tra percorsi laboratoriali ed esperienze memorabili di continuità e rottura. Ripercorriamo alcune tappe nello sviluppo di quell’antico momento della “nascita della Regia” come arte della fabbrica e umbratile mestiere.
Non si dà spettacolo senza scrittura. Attenzione, non parola, che è spesso fuggita o scavata fino alla sua essenza sonora, ma scrittura scenica: una traccia, una storia da narrare. Scolpire il testo nell’azione e, quindi, metterlo in scena, spetta alla Regia, elemento imprescindibile di ogni discorso sul Teatro. Perché nella scena convergono i corpi e le idee, le storie passate e le utopie, e questa gravida bisaccia si svuota sul palco tra le mani direttrici dei registi. Svariate le pratiche, diverse le teorie sulla composizione scenica, unica invece l’impronta registica; ma in questo ventaglio di stili è possibile individuare delle scuole, dei bacini di influenza condivisa sul metodo, sulla funzione dell’attore, sul rapporto con il pubblico, sul senso stesso del mestiere teatrale. Al Novecento si riconduce la nascita della Regia teatrale, tra percorsi laboratoriali ed esperienze memorabili di continuità e rottura: lungo gli snodi delle diverse pratiche di abitare sacralmente il teatro, ripercorreremo quelle tracce sperimentali la cui eredità è impressa in molto di quello che oggi vediamo a teatro.
Atto I: Il Living Theater
Fondato da Judith Malina e Julian Beck, allieva della scuola di Piscator lei, dedito all’arte contemporanea lui. I due giovani, che condividono la visione dell’attore impegnato politicamente, si dedicano allo svecchiamento del linguaggio teatrale, rifondandolo sul sentimento represso, sul dolore urlato attraverso la forma rituale. Cominciano a fare teatro in casa, nei living room, per un Living Theater rivoluzionario, pacifista e comunista. Gli spettacoli diventano eventi in cui confluiscono linguaggi simbolici e fisici, in pieno accordo con la biomeccanica di Mejerchol’d che predica la centralità del corpo come architettura vivente e collettiva. Da Artaud apprendono che la trasgressione poetica può anche essere politica, e alla loro estetica partecipa anche il pubblico, con happening e reading, in una connessione profonda fra arte e vita che diventa “esperienza totale”.
Atto II: Jerzy Grotowski
Immerso nella spiritualità orientale, il Teatro grotowskiano è una ricerca esistenziale che, in continuità con il percorso tracciato dal maestro Stanislavskij, sancisce il primato della dimensione etica e antropologica su quella estetica. Grotowski, però, non si addentra mai nel Teatro per la rappresentazione, ma lo affronta come luogo di autocoscienza e svelamento delle “parti invisibili”. Un inabissamento che comincia già con le prove, intese come “fatica” del corpo: al Teatr Laboratorium gli attori sono sottoposti a uno sforzo fisico incessante e volto al superamento della pratica recitativa conclusa in sé stessa. Ci troviamo sul sentiero della performance, in cui l’energia psichica e corporea conducono alla riscoperta della memoria, in un ritrovarsi che è scomposto e rimontato dal regista per lo spettatore. Al grado zero di questo Teatro povero, l’attore, che durante il training decostruisce il testo e attraverso impulso e improvvisazione, azione e gesto, sprofonda in sé e rinasce per offrirsi al pubblico. A differenza del Living, il pubblico è estromesso dall’azione ma immerso, assieme agli attori, in uno spazio nudo e, soprattutto, non canonicamente teatrale.
Atto III: Peter Brook
Da I fili del tempo a Il punto in movimento, Brook migra per generi tradizionali e sperimentali, dal cinema al Teatro, dalla ricerca del correlativo figurativo alla comunicazione relazionale. In Polonia, con il Lamda Theatre omaggia Grotowski e Artaud, da cui apprende la centralità dell’attività laboratoriale che per Brook orbita attorno al punto mediano tra esperienza artistica e antropologica. Il nesso teatro-vita, ricercato attraverso la memoria muscolare e vocale, si fa vivido e reale nel contatto con lo spettatore, non culturalmente attrezzato e predisposto all’incontro, ma immerso in una realtà primitiva e pre-verbale. Dall’Iran all’Africa, la rappresentazione non trova limiti comunicativi, il viaggio stesso è una prova artistica e umana. Quando lavora sullo spazio, Brook cerca edifici viventi, guarda alla materia del pavimento perché il suolo entri nel gioco scenico, all’altezza affinché l’azione trovi slancio e respiro, agli oggetti che evocano scenari immaginifici. Gli attori di Brook lavorano per sottrazione: “ingenuamente” disponibili agli stimoli spaziali più ruvidi, non creano il personaggio dalla parola testuale ma dall’emozione. Come atleti artaudiani, si districano nella struttura scenica come in un rito collettivo di liberazione del sentimento, vissuto come una fiamma accesa e donata.
Atto IV: Giorgio Strehler
In una Milano immersa nella desolazione delle macerie, Giorgio Strehler e Paolo Grassi stilano un programma di Teatro d’Arte per tutti, non sperimentale né d’eccezione, ma un Teatro eticamente impegnato a reclutare i propri spettatori nelle fabbriche, nelle scuole, negli uffici. Tra il popolare di Vilar e il Teatro d’Arte di Stanislavskij, Strehler ricava per la sua regia un’idea di Teatro che possa fare la storia cambiando la società, o almeno quella riunita attorno al “luogo critico” del Piccolo Teatro. Studia Copeau, Jouvet e Brecht, si interroga sul teatro come fatto umano e lavoro quotidiano, alla Scuola del Piccolo porta i mimi e Mejerchol’d, ma anche la Commedia e Brecht, alla ricerca di una sintesi tra il tradizionale Teatro d’Attore e la Regia primonovecentesca che si colloca al confine tra il culto della parola e la dimensione sociale. La polisemia non è solo letteraria ma pragmatica, e spetta alla Regia mediare fra il testo e lo spettatore storicamente determinato. Strehler si incarica di tradurre gli autori, di illustrarli ai suoi attori, di fare da uomo-orchestra a partire dalla prima lettura. Un’esperienza condivisa di dedizione e sacrificio, di corpo a corpo fisico e psicologico con le parole, gli oggetti, gli altri in scena, fino a che il Teatro non prende vita da solo, e arriva il momento del congedo.
Atto V: Tadeusz Kantor
Kafka, Maeterlinck, i romantici, ma anche Craig, la Bauhaus e il mondo-immondezzaio di Schulz. Una formazione variegata che farà da caposaldo per tutta la carriera poetica e poietica di Kantor, che di queste suggestioni farà una vocazione al concretismo e a un rapporto ondivago con l’edificio teatrale. Quelli di Kantor non sono laboratori, ma atelier aperti al pubblico, lavori collettivi di Teatro totale in cui, come in un collage, si compone la scena a partire da elementi eterogenei, senza una forma che li imbrigli, ma sulla base di un principio di realtà relazionale e casuale fra oggetto e spazio. Si torna al Teatro zero come Teatro decostruito dagli artifici accademici, in cui la materia è plurisignificata simbolicamente: sedie, porte, armadi, sacchi, sono oggetti archetipici che ri-orientano l’azione drammatica verso stati minimi dell’essere. A questo grado zero del Teatro si arriva in punta di piedi, dissolvendo i contenuti, replicando senza logica i gesti che sono automatismi: come manichini, gli attori-marionette sono percepiti come oggetti, incapaci a loro volta di attraversare e trasformare la materia informe. Dai “riti di imballaggio” agli happening, la poetica degli oggetti ispira l’azione degli attori e degli spettatori, figure di cera in un paradosso che restituisce vita autonoma alla materia e conduce il movimento verso un fondo di morte.
Atto VI: Eugenio Barba
Per approfondimenti
M. Schino, La nascita della regia teatrale, Laterza, Roma-Bari 2003
A. Sacchi, Il posto del re: estetiche della regia teatrale nel modernismo e nel contemporaneo, Bulzoni, Roma 2012
G. Zanlonghi, La regia teatrale nel secondo Novecento: utopie, forme e pratiche, Roma, Carocci 2009
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