
Ema (non) sfugge alla macchina – Fuga e ricomposizione in Larrain
«On n’échappe pas de la machine»
Gilles Deleuze, Kafka. Per una letteratura minore
«Looks like a girl, but she’s a flame /
So bright, she can burn your eyes»
Alicia Keys, Girl On Fire
Nel suo incessante confronto con il potere – indagato da prospettive trasversali ma al tempo stesso sempre centralissime –, il cinema di Pablo Larrain ha raccontato fughe impossibili da realtà repressive, evasioni solo apparenti perché già integrate in quello stesso sistema che risospinge a sé i personaggi servendosene come meccanismi inconsapevoli, ma anche le modalità di mantenimento e mutazione delle logiche politiche di controllo attraverso il ruolo dei media. I film del regista cileno hanno posto l’attenzione sul rapporto tra individui e sistema politico, in un dialogo tra storie e Storia che lega saldamente la ricettività del singolo alla macchina sociale e politica cui appartiene e dalla quale egli stesso viene sovente plasmato. Larraín pensa e configura così il potere come «una struttura reticolare e dinamica che costituisce e attraversa la società tutta producendo effetti contradditori e aberranti» (Massimiliano Coviello, Francesco Zucconi, Sensibilità e potere. Il cinema di Pablo Larraín), osservata attraverso la lente di uno sguardo deformante. Tanto nel totalitarismo militare di Pinochet e negli effetti dei suoi strascichi quanto nell’America sconvolta dall’assassinio di JFK, i personaggi sembrano sempre schiacciati tra meccanismi dalle maglie strette, di cui il regista mette in scena il funzionamento con attenzione scientifica, ingegneristica, dimostrandosi molto più interessato all’analisi della macchina (da cui non sembra esserci via d’uscita) che alla ricerca di un ideale cui votarsi. Forse Ema, il suo ultimo film, sembra però dischiudere nuove prospettive. È davvero così?
Protesi e ingranaggi
Fuga, il primo lungometraggio del regista, il cui titolo assume un carattere emblematico per i film successivi, è la storia di una doppia ossessione che sfocia nella follia, prefigurando le aberrazioni psicopatologiche dei protagonisti di Tony Manero e Post Mortem. Lontano da un’apparente relazione con le opere successive, in realtà Fuga comincia già a sondare gli effetti deleteri prodotti sull’individuo da un sistema coercitivo (il manicomio in cui è rinchiuso Claudio), lo spettro di un passato traumatico, e soprattutto l’impossibilità di una fuga che si tramuta in alienazione. Con Tony Manero e Post Mortem ci troviamo di fronte a due variazioni sul tema dell’anestetizzazione prodotta da un regime repressivo nei confronti di individui a cui è stato sottratto ogni spirito di ribellione. Da qui l’incanalamento dell’insoddisfazione per la squallida realtà dittatoriale che si traduce in addomesticazione degli istinti (Post Mortem) o, al contrario, in forme annichilenti di idolatria (di un’icona) cui fa da contraltare una brutalità quotidiana sfogata con freddezza (Tony Manero). Nei due protagonisti Raúl e Mario – e il secondo potrebbe benissimo anticipare l’involuzione del primo – non c’è nessuna autentica volontà di insurrezione ma al contrario un rapporto alienante con il reale che, nell’illusione di poter lasciare fuori campo l’orrore, permette che l’individuo ne diventi specchio e protesi inquietante, e dunque suo indiretto servitore. No – I giorni dell’arcobaleno, che pur sembra celebrare la caduta del regime, in realtà ci ricorda come il successo del partito democratico sia già frutto di un compromesso con le logiche consumistiche e capitalistiche di un mercato sempre più globale (la vittoria al referendum grazie a una campagna pubblicitaria). Il club delinea una parabola di ricomposizione dell’equilibrio e di sopravvivenza del potere, che, anziché essere debellato, ha solo saputo adattarsi al rinnovamento, nascondendosi dietro un muro di silenzio e omertà. In Jackie, i confini per la protagonista diventano quelli definiti dall’ingerenza, subita e cercata al tempo stesso, dello spettacolo mediatico, della politica come rappresentazione continua, nella vita pubblica e in quella privata. Jackie è dominata dall’idea asfissiante della propria immagine e diventa essa stessa simulacro continuamente sdoppiato, a raffigurazione di una verità sempre più ineffabile, come già era accaduto in Neruda, forse il film di Larrain più aperto a ipotesi utopiche di cui però vengono rivelati i limiti, mentre una fugace apparizione del giovane Pinochet getta l’ombra di un sinistro segno premonitore.
Emancipazione o ricomposizione?
Se dunque il passato e la Storia sono per Larrain luoghi in cui la speranza non sembra avere spazio, che sia forse possibile trovare proprio nel presente e nelle nuove generazioni quella forza incendiaria, quella capacità di rottura che sembra negata ai personaggi dei suoi film precedenti? Certo, che il reggaeton potesse essere uno strumento di emancipazione dal patriarcato probabilmente non lo avrebbe mai pensato nessuno. Per lo meno non con la stessa convinzione di Ema (Mariana di Girolamo), protagonista dell’ultimo omonimo film del cileno, presentato in concorso a Venezia 76. Ema è una ballerina di Valparaíso fidanzata con Gastòn (Gael García Bernal) – coreografo che per inciso detesta il reggaeton – con cui ha adottato un figlio che è stato però restituito ai servizi sociali dalla coppia dopo che il bambino ha ustionato il volto alla sorella della protagonista. Ema è dunque anche una madre, o almeno decide di volerlo essere, così da architettare un piano per riavere il bambino (e non solo). Piano che, a volerlo prendere seriamente, è al limite del demenziale. Ema è una creatura della notte che come un vampiro spolpa le sue vittime, ma è anche un sole che brucia chi gli si avvicina troppo. Ema è sesso, musica, corpo, amante e furia cinica. Ema è tutto quello che non sono gli altri personaggi di Larrain.
Ha la carica eversiva per bruciare una società che la vorrebbe addomesticata – letteralmente, avendo come hobby quello di girare per la città con un lanciafiamme –, e decide consapevolmente (a differenza di Jackie) di essere tante cose in una, senza lasciarsi sopraffare dall’ossessione per la propria immagine. Sfrutta anzi in modo consapevole quella sessualità con cui il pensiero maschilista tende a stigmatizzare il femmineo, per piegare gli uomini (inermi o sessualmente impotenti) e le donne che la circondano ai propri fini. Ennesima concrezione del potere o potenza sessuale che scardina la società così come la conosciamo? Entrambe le cose?
Forse non è tutto oro quel che brilla (come i capelli ossigenati di Mariana di Girolamo). Con Ema Larrain guarda a una generazione che, parole sue, «comprende il mondo in un modo diverso dal nostro», rivolge lo sguardo al presente – e al futuro – e gira un film che porta in scena, nel finale, «una famiglia diversa, come sono quelle di oggi, che possono essere omoparentali ed ammettere il poliamore». Dalle ceneri di un vecchio modello familiare ne nasce una visione più mobile e articolata. Ema domina come una regina questo mondo caotico, febbrile che l’impianto estetico e narrativo ostentatamente fuori dagli schemi tenta di restituire. Eppure sempre di famiglia si tratta. Sulle scene finali del film si ha l’impressione che la forza sovversiva di Ema sia stata incanalata e infine dispersa per ricostituire l’ennesima gabbia del cinema di Larrain che chiude la stessa protagonista e ne smorza la carica anarchica. Avrei preferito vedere bruciare il sistema familiare dalle sue fondamenta anziché trovarmi di fronte a una programmaticità di eventi volta alla ricomposizione del tutto. Ema resta una figura ambigua, e Larrain lascia aperte diverse porte interpretative nei suoi confronti. L’ultima immagine ci mostra la ragazza riempire una tanica di benzina. Segno che la sua voracità non è stata placata, che c’è ancora molto da bruciare. Eppure, ancora una volta, l’impressione è che dalla macchina non si scappi.
(Questo articolo è stato pubblicato nel settimo cartaceo di Birdmen Magazine, scaricabile gratuitamente qui).
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