
El Conde – Vampirizzare il potere | Venezia 80
Intorno alla morte di alcuni personaggi famosi nascono teorie cospirazioniste e leggende metropolitane che li immaginano ancora vivi, in luoghi remoti, nascosti dietro nuove identità. Dando credito a queste voci, Hitler non si è suicidato nel suo bunker a Berlino, ma dopo la guerra è andato a vivere in Sud America, Elvis Presley ha simulato la propria morte per allontanarsi dalle pressioni dello show business, così come Marilyn Monroe, e Lady D è fuggita per rifarsi una vita con il compagno Dodi Al-Fayed. Perché dunque non ipotizzare che anche il Generale Augusto Pinochet, responsabile di una delle dittature più sanguinose del Novecento, abbia finto la propria morte quando le maglie della giustizia internazionale iniziarono a stringersi intorno a lui, per ritirarsi, ricchissimo e impunito, nelle terre desolate della Patagonia? Da questa intuizione geniale parte Pablo Larraín che nel suo ultimo lavoro, El Conde, torna a fare i conti con il doloroso passato del proprio Paese.

La Storia, ancora una volta, fa irruzione prepotentemente nell’immaginario del regista cileno, ma Larraín la affronta da una prospettiva diversa e adottando un tono nuovo. Se in Tony Manero raccontava il Cile nel pieno della dittatura, in Post Mortem si soffermava sui giorni del golpe con cui Pinochet prese il potere, l’11 settembre del 1973, e in No – I giorni dell’arcobaleno sul referendum che nel 1988 pose fine alla sua dittatura, in quest’ultimo lavoro decide di ragionare sull’eredità di Pinochet, a cinquant’anni dal colpo di stato che ne instaurò il regime. L’impunità del dittatore, morto da uomo libero, senza aver mai pagato per le sue colpe, lo rende in un certo senso una figura immortale, il cui fantasma aleggia ancora sul Cile di oggi. Larraín concretizza questa immagine trasformando Pinochet in un vampiro che si conquista la sua eternità nutrendosi dei cuori ancora palpitanti degli esseri umani, con una predilezione per quelli delle giovani donne.

Dalle prime inquadrature emerge lampante il tono farsesco del film, il linguaggio della satira politica pungente e feroce che il regista ha scelto per raccontare il suo Generale-vampiro. Sulle note della marcia di Radetzky vediamo una serie di oggetti che ci presentano il protagonista: cimeli militari, vecchie fotografie, miniature di soldatini e di carro armato, un orinale in vetro abbandonato per terra. Il potente e crudele Generale Pinochet è ormai un uomo anziano con il viso macchiato che si assopisce sprofondato in una vecchia poltrona e cammina a fatica servendosi di un deambulatore. La scelta musicale, il cui tema viene ripreso più volte nel corso del film, ha una doppia funzione: da una parte richiama i fasti militari di un tempo enfatizzando parodicamente la distanza con il declino del presente; dall’altra sottolinea quello che la suadente voce off ci presenta sin dall’inizio come lo scopo della vita del Conte: combattere le rivoluzioni. Tutte le rivoluzioni. Quale colonna sonora potrebbe allora essere più adeguata se non la marcia che Strauss scrisse per celebrare la restaurazione dell’ordine dopo i moti del ‘48?

La parodia non tocca solo Pinochet (Jaime Vadell), ma si allarga anche alla moglie (Gloria Münchmeyer) e ai figli del Generale, accorsi in Patagonia alla ricerca della fortuna nascosta del padre. La molla che muove tutti i personaggi in scena è l’avidità, il desiderio incontrollato di denaro da una parte, e dell’immortalità dall’altra. Privi di qualunque scrupolo morale e incapaci di provare reale affetto l’uno per l’altro, la famiglia Pinochet va incontro alla propria grottesca autodistruzione, in un susseguirsi di tradimenti e complotti che ne mettono in luce la stupidità e, insieme, il piacere per la violenza. La satira farsesca è per Larraín l’unico modo possibile per girare un film sul dittatore, perché, mostrandone in maniera così esasperata la brutale disumanità, esclude qualunque tipo di empatia da parte del pubblico, ponendo tra lo spettatore e la rappresentazione una distanza necessaria che viene supportata dall’uso del bianco e nero.

El Conde diverte, ma quello che affiora sulle labbra dello spettatore è un sorriso amaro perché, nonostante il potere di Pinochet venga ridicolizzato e mostrato nella sua infinita demenza e aberrazione, sopravvive, ancora una volta e nonostante tutto. Dietro la farsa, si nasconde un inquietante monito per il presente, l’avvertimento che chi non ricorda il proprio passato è condannato a riviverlo.
Dal 2015 Birdmen Magazine raccoglie le voci di cento giovani da tutta Italia: una rivista indipendente no profit – testata giornalistica registrata – votata al cinema, alle serie e al teatro (e a tutte le declinazioni dell’audiovisivo). Oltre alle edizioni cartacee annuali, cura progetti e collaborazioni con festival e istituzioni. Birdmen Magazine ha una redazione diffusa: le sedi principali sono a Pavia e Bologna
Aiutaci a sostenere il progetto e ottieni i contenuti Birdmen Premium. Associati a Birdmen Magazine – APS, l‘associazione della rivista