
Il “Fattore Spritz” nelle recensioni di Venezia 76.
«State lontani da Ad Astra»
(Paolo Mereghetti al Bar Lion, Venezia 76.)
Pronti via, il grande errore di Venezia 76. è sotto gli occhi di tutti, sta lì, davanti a Palazzo del Casinò, è un piccolo candido bar di legno che nasconde un inconfessabile segreto, presto svelato dal passaparola, da bisbigli all’ombra degli oleandri in fiore, da occhiate incredule, in parte commosse: è lo spritz a 3 euro.
Come il vaso di Pandora, questo nettare veneziano sversa nella Laguna un vago senso di onnipotenza critica e divismo diffuso, mali accresciuti dalla posizione strategica e dal prezzo inaspettatamente basso. Dici “Venezia” e ti immagini uno spritz a 7 euro, invece è a 3, questo significa che se eri intenzionato a tenere la tua media-spritz giornaliera a quota 1, ti ritrovi subito ben disposto a cambiare idea raggiungendo facilmente quota 2, che diventa 3 perché non c’è 2 senza 3 e poi si incontrano tanti amici, vecchi e nuovi, si festeggia. Cosa? Non si sa.
Il detto bar si trova nel centro nevralgico e quasi perfetto tra le sale limitrofe, Perla, Volpi, Giardino, Grande, Pasinetti, Darsena, ed è raggiungibile anche ai non accreditati. Una sfida all’ordine pubblico, direte, e invece no, regnano la calma, la pace, i ritmi compassati, si tratta di un luogo incantato a metà strada tra i Caraibi e il Paradiso, dove le discussioni, gli odii, le gelosie sono stati affogati dapprima in uno spritz variante Aperol, per finire polverizzati dalla variante Campari, quella strana rossa malattia che contagia tutti mano a mano che si sommano le occhiatacce dei baristi veneziani.
«Aperol? Sicuro?»
«No, non sono sicuro, è ovvio che mi sono sbagliato, intendevo Campari»
Ma dunque dove sta l’errore di Venezia 76., laddove tutto sembra andare a gonfie vele? L’orrore comincia appena fuori dal bar, è lì che piovono i commenti a caldo, le rece da mandare subitissimo a qualche povero correttore di bozze rimasto impantanato in città. Sei testimone di corse verso la sala stampa, corse dietro ai cespugli in cerca di un po’ di pace per la VIDEORECENSIONE. Forti del carburante rosso o arancio immagazzinato già alle prime luci dell’alba, schiere di critici si fiondano a fare la fila per vedere Joker, Ema, Marriage Story, Ad Astra, riuscendo a vederne probabilmente solo tre su quattro, trovandosi poi ad elemosinare pareri, a origliare conversazioni private tra Gianni Canova e i suoi amici, a leggere le sinossi sui cataloghi, tutto per tirare fuori qualcosa da dare in pasto ai lettori. Il prima possibile.
Perdere i film per cui si è andati a Venezia provoca varie reazioni, c’è chi torna al bar, c’è chi prova Orizzonti, rischia i corti in Sala Giardino, c’è chi dà fiducia ai film delle Giornate degli Autori, scoprendo, in quest’ultimo caso, alcuni dei film più belli di tutto il Festival. C’è, invece, chi deve aggiornare il blog, il canale YouTube, scrivere il Tweet dell’anno, parlare di quanto il film di Maresco sia un CAPOLAVORO NECESSARIO e INARRIVABILE. Insomma un bestiario reso meno medievale dalla presenza persistente della tecnologia: smartphone ovunque, pure in sala, dove volti doppiamente illuminati svelano l’indice (basso) di gradimento del film. E ti viene da pensare che molti di quegli smartphone possano appartenere ad accreditati stampa che per entrare hanno fondato una rivista, un blog, qualsiasi cosa; che sono cugini di un caporedattore e non produrranno alcun articolo, non daranno alcuna copertura alla Mostra, ma ne usciranno sicuramente arricchiti individualmente di visioni approssimative, opinioni sgangherate, argomenti di discussione con altri critici provenienti da riviste per cui scrivono solo sulla carta (non quella stampata, ma metaforica). In fondo a tutto questo variegato pubblico professionale o sedicente professionale, loro, gli accrediti verdi, quelli che esultano se riescono a entrare in sala – quest’anno gli accreditati alla Mostra erano circa 500 in più dell’anno scorso, fate i vostri calcoli – e che si ritrovano spesso a questionare con le maschere e gridare «Vergogna! Ci trattate come animali!» (è successo davvero, l’ha fatto un noto professore universitario, ho i testimoni, per dirla sul clima di tensione cinefila che si respirava nell’aria).
«Hey Rami, hi Rami, hey…non m’ha cagato»
(Luca Guadagnino a Rami Malek, Venezia 76.)
In tutto questo marasma, poi, ci sono loro, le star, e noi, i Birdmen, sempre pronti a regalare copie di una rivista che al Lido superava per tiratura i vari Hollywood Reporter, Variety e daily disponibili sugli ampi tavoli dell’Excelsior.
«Grazie, questo me lo leggo dopo a letto»
(Paolo Sorrentino, in bicicletta, vestito da spiaggia, ricevendo una copia di Birdmen Magazine #6)
E i film? Vi parlo del mio preferito, Ema, che ho apprezzato ancora di più grazie all’altissimo cinefilo che avevo di fronte, capace, con la sua testa enorme, di coprire mezzo schermo e farmi perdere un paio di fugaci scene fondamentali per la comprensione dell’intera opera. Poco male, grazie a questa inaspettata riscrittura ho vissuto un film completamente diverso e se potessi parlare con Larraín gli suggerirei di tagliare quelle due scene: diventerebbe un’opera ancora più ESPLOSIVA e DETONANTE.
Ma tant’è, Venezia è finita, andate in pace, alla stazione di Venezia S. Lucia incontri una fan di Adam Driver in procinto di portare in treno il poster cartonato di Marriage Story di metri 1,5×1 (non scherzo), che ha letteralmente strappato dalle grinfie di una Mostra in disarmo, battuta da vento freddo e pioggia, unici elementi in grado di battere quello spritz da cui tutto è partito, da cui è nata questa follia di tappeti rossi e fotografi, di maschere e feste, di recensioni e Coppe Volpi, di pasta ai peoci, croissant ai peoci, torte ai peoci, peoci ai peoci.
Insomma, l’avrete capito, Venezia 76. è stata bellissima, e il prossimo anno daremo una possibilità anche al prosecco, chissà mai che non ne escano cose ancor più belle.
– Tutte le citazioni presenti in questo articolo sono reali –
Per ultimo, il ricordo più bello scattato a Venezia 76., enrico ghezzi con Toni Servillo.
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