
Il curioso caso di Robert Pattinson
Esperimento mentale. Immaginiamo che esista la possibilità di viaggiare nel tempo. Il me del 2020 va dal me del 2010 e gli dice: «Tra dieci anni, sarai un grandissimo fan di Robert Pattinson». Prima lo sconcerto, poi le risate; in quel periodo, infatti, la saga di Twilight stava avendo un successo planetario, con ben quattro capitoli usciti nelle sale tra il 2009 e il 2012. La figura di Edward Cullen, il vampiro interpretato dall’allora poco conosciuto attore britannico, entrava nell’immaginario collettivo di una certa fetta di pubblico, con tutto il corredo di meme, parodie e derisioni del caso.
Flash-forward di dieci anni: Pattinson, che il 13 maggio compie 34 anni, ha lavorato con maestri del calibro di David Cronenberg (Cosmopolis, 2012 e Maps to the stars, 2014), Werner Herzog (Queen of the desert, 2015), James Gray (Civiltà Perduta, 2016) e Claire Denis (High Life, 2018); ha recitato in produzioni indipendenti di ogni genere, che spaziano dalla fantascienza, all’horror, al biopic e al film storico; infine, si appresta a collaborare con Christopher Nolan per il film Tenet e a prestare il volto al nuovo Batman di Matt Reeves.
Tutto questo preambolo per ribadire un concetto semplice: nessuna carriera è segnata dall’aver preso parte a determinati film, e nessun curriculum attoriale è immacolato. Al contrario, solo i grandi attori fanno tesoro (anche, letteralmente, dal punto di vista economico) delle loro esperienze precedenti, per usarle come trampolino di lancio verso traguardi artistici sempre più alti. Robert Pattinson è descritto da tutti come una persona umile e un attore estremamente professionale e metodico: ha dei precisi gusti cinematografici, e fa di tutto per poter lavorare con registi che stima e che possono contribuire alla sua crescita. Non ama fare troppe prove prima di girare per timore di perdere spontaneità, quasi custodendo gelosamente la segretezza dell’atto, nonostante dichiari modestamente di «non sapere davvero come si recita». Chiunque l’abbia visto in azione negli ultimi dieci anni, sa che sta mentendo.
Pattinson è quel genere di attore che non si muove mai su territori agevoli, quelle zone grigie dove l’interpretazione è annacquata dalla figura reale di chi recita, che ogni tanto riemerge. Al contrario, si spoglia di ogni residuo divisimo interpretando personaggi inquieti, problematici, che si esprimono a partire dagli estremi dello spettro emotivo. Il volto pulito, lo sguardo glaciale, il mento scolpito: tutti i tratti che l’hanno reso il perfetto protagonista di un teen-drama si trasformano in veicoli di ambiguità che riflettono la natura tormentata dei suoi personaggi. Pattinson non indossa maschere, ma lavora innanzitutto sul fisico, su andature e posture, su accenti e inflessioni della voce prima ancora che sulle espressioni del viso. Ad esempio della sua bravura, ho deciso di analizzare tre interpretazioni, ciascuna da un film di genere diverso.
The Rover (2014) di David Michod
The Rover è uno dei film post-apocalittici più spietati di cui abbia memoria. Lunghi silenzi intervallati da improvvisi momenti di violenza e da parole scagliate come pietre: non c’è spazio per il sollievo, né per la tenerezza, forse nemmeno per l’umanità. In questo viaggio on the road nel deserto australiano tra le macerie della civiltà ci sono Eric, un Guy Pearce ieratico e svuotato di ogni emozione positiva, e Rey, un ragazzo in balia degli eventi interpretato da Pattinson. Proprio il giovane, con la sua ingenuità adolescenziale, si trova al centro dei rari momenti lirici del film: abbozza qualche tentativo di comunicare con Eric durante i lunghissimi viaggi in macchina, racconta aneddoti sulla sua infanzia intorno al fuoco, si dimostra più volte riconoscente e disponibile nel dare una mano all’improvvisato compagno di viaggio, che sembra tenerlo con sé solo per mera convenienza.
La prova di Pattinson è magnificamente verosimile sia in virtù degli elementi fisici che di quelli verbali: incespica nelle parole con il suo accento masticato, lo sguardo quasi sempre rivolto a terra, il senso di inadeguatezza per un mondo anestetizzato ad ogni violenza dipinto sul volto. Pur avendo poche battute a disposizione egli contribuisce, con ogni singola parola, alla costruzione di un carattere, di una personalità vera e sofferta, non di una maschera che svanisce al termine della finzione filmica.
Good Time (2017) di Benny & Josh Safdie
Pattinson racconta di aver contattato i registi newyorkesi dopo essersi imbattuto per caso nel poster del loro film, Heaven Knows What (2014); la dimostrazione che la scelta dei ruoli può essere proattiva e non semplicemente subita, dettata dall’istinto e non da particolari calcoli strategici. Un colpo di fulmine al neon, dunque: da lì è decollato il progetto (a bassissimo budget, appena due milioni di dollari) Good Time, la frenetica parabola del piccolo criminale Constantine Nikas, interpretato da Pattinson, e del fratello Nick, interpretato da Benny Safdie. Lo stile dei fratelli registi è caratterizzato da un uso copioso, ma sempre funzionale, della camera a mano; ne giovano il ritmo serrato delle sequenze più concitate e anche i dialoghi, che restituiscono un senso di realismo quasi da presa diretta. Constantine è un essere randagio, che si barcamena in ogni modo nella palude della microcriminalità aspirando però ad essere qualcosa di più della “feccia di strada”, anche dal punto di vista morale.
La barba incolta, i capelli prima in disordine, poi maldestramente ossigenati, lo sguardo insonne di chi si trova costretto a vivere costantemente in allerta. Egli tenta di proporsi come guida per il fratello affetto da una disabilità mentale, forse convinto in cuor suo di essere davvero l’unica persona capace di comprenderlo, ma non si rende conto del danno immenso che procurano le sue azioni. In una delle fasi cruciali della pellicola, Constantine parla di un avvenimento come di “qualcosa di importante” e “profondamente connesso al suo scopo”; da spettatori, ci chiediamo se una simile affermazione sia il riflesso di un’effettiva profondità o sia solo il mezzo di un criminale senza arte né parte per scamparla ancora una volta. L’ambiguità della recitazione di Pattinson non ci induce a dare risposte nette, restituendoci un personaggio incredibilmente sfaccettato.
The Lighthouse (2019) di Robert Eggers
Una delle costanti di questi tre excursus è la presenza di una coppia di personaggi come fulcro della vicenda narrata. Nel secondo film di Robert Eggers, è Willem Dafoe a fare da controcanto a Pattinson nella maniera migliore possibile. Curiosamente, i due attori non si sono praticamente mai incrociati prima delle riprese, se non per delle prove generali (mal digerite da Pattinson) e poi sul set per girare le scene. Essi incarnano, dunque, due poli opposti tanto nel loro mestiere quanto nel film, gravitanti intorno ad una natura ostile, il denominatore comune delle riprese e delle vicende narrate. Ephraim Winslow, interpretato da Pattinson, è un ex boscaiolo che si ritrova a fare il wickie, l’aiutante del guardiano del faro. È un elemento strano, fuori posto, che sfugge a qualsiasi caratterizzazione monolitica, essendo al contempo giovane e consumato, muto e logorroico, rassegnato e rabbioso. Il senso di straniamento è accresciuto dall’utilizzo di un gergo ottocentesco, a tratti spigoloso, a tratti biascicato.
Egli è il principio di terrestrità della vicenda, con il suo corredo umano di passioni e istinti. Il suo volto scavato è in perenne trasformazione, tagliato dai chiaroscuri delle lanterne e sferzato dagli agenti atmosferici, ora in sofferta tensione, ora deformato da un ghigno grottesco. Lo stile recitativo di Pattinson si inserisce alla perfezione nel perenne gioco al rialzo di Eggers, che spinge al limite mentale e fisico i suoi personaggi, ne estrae (talvolta letteralmente) gli umori più putridi per farne un concentrato di orrore cosmico. Siamo di fronte ad un’interpretazione selvaggia, anarchica, sopra le righe, eppure perfettamente inserita nel contesto della pellicola, destinata a rimanere impressa nella memoria dello spettatore. (Clicca qui per leggere la nostra recensione di The Lighthouse)
Sarebbero da menzionare anche le ottime prove in film come The King di David Michod, uscito l’anno scorso e disponibile su Netflix, o Life di Anton Corbijn, il biopic su James Dean e il suo fotografo uscito nel 2015; ritengo tuttavia che quelle analizzate siano, ad oggi, le vette della carriera ancora agli albori di Robert Pattinson, attore eclettico e moderno.
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