
Uncut Gems – Gli idoli si pregano gridando
«Black Jew Power, Nigga!»
Quello dei fratelli Safdie è un cinema di sopravvivenza. Lo è nei suoi personaggi, che si arrabattano per poter lottare e respirare un giorno in più, lo è nella sua stessa natura indipendente, lontana dai riflettori, silenziosa, acquattata nel folto della giungla in attesa dell’occasione giusta per attaccare. Se Good Time li aveva finalmente fatti conoscere a un pubblico prevalentemente cinefilo, Uncut Gems sembra proprio essere l’occasione che cercavano per balzare fuori a ruggire con tutta la loro forza.
La giungla, dicevamo, è proprio l’habitat naturale di personaggi che come animali vagano per una New York troppo grande, troppo chiassosa, troppo affollata. Una ragazza cleptomane vive di piccoli sotterfugi nel primo film di Josh Safdie, il maggiore dei due, cui si unirà poi Benny per la regia del primo lungometraggio in coppia, quel Daddy Longlegs che incrocia la sua strada con un altro animale sgangherato, un uomo in rovina che prova a rimanere a galla sia come individuo singolo che come padre di due bambini. E ancora, c’è un cestista fallito in Lenny Cooke, un tragico amore tra giovani tossicodipendenti in Heaven Knows What, e poi Good Time, guidato da un Robert Pattinson delinquentello da quattro soldi, con quella sua strana formula di violenza e tenerezza.
Tutti personaggi intrappolati nella propria limitata realtà, i cui movimenti sono impediti da un universo interiore mai pacificato e da un ecosistema di individui che vive lo stesso dramma, risultando in una guerra quotidiana per la sopravvivenza. Ma in questa biosfera Uncut Gems introduce un elemento nuovo: il piano di fuga, e per attuarlo servono aiuti dal mondo esterno.
Da una parte Adam Sandler, l’attore, quasi rapito alla sua Hollywood dai fratelli newyorkesi per approdare nottetempo in un Cinema che non è abituato ad accoglierlo, dall’altra una pietra, una gemma grezza dissotterrata in Etiopia come un idolo pagano che porti maledizioni. Una prima scena degna de L’esorcista ci introduce a volo d’uccello sul luogo del delitto, l’origine del male, la miniera africana che culla un talismano pari a Pazuzu nella sua capacità di agitare gli animi. Trovato l’oggetto magico, inizia una storia chiassosa, rumorosa, in cui la colonna sonora contribuisce a scrivere una sceneggiatura giocata su una serie di mosse clamorosamente sbagliate, di alterchi e diverbi à la Jersey Shore talmente fastidiosi da non poter essere un caso. E difatti la scrittura, esperita attraverso una regia che spia il protagonista sempre da vicino, attacca con tutta la sua violenza verbale per almeno un’ora, salvo poi svelare un parte finale che dà tutto indietro con gli interessi, proprio al pari di una scommessa.

E il film stesso è una scommessa che come al solito unisce attori professionisti a gente comune e coinvolge star di varia provenienza, su tutti un Kevin Garnett in preda all’idolatria, che si trova immerso nel sottobosco di piccoli criminali, allibratori, e venditori del Diamond District di New York. Una roccaforte del kitsch studiata nell’arco di nove anni da Josh Safdie, per provare a capirla, per respirarla, per dare una casa al protagonista Howard Ratner, che cerca di fuggire dai problemi con l’aiuto degli ebrei etiopi e un giro infinito di prestiti, pegni e affari rocamboleschi.

Ma quella di Howard è una falsa fuga, non c’è una metà spaziale, forse ce n’è solo una economica, che nulla ci porta a credere possa non essere messa nuovamente a repentaglio da future scommesse e scelte sbagliate. Resta però, tragicamente, un amore autentico per l’unica donna – la debuttante esplosiva Julia Fox – che riesce a fare abbastanza rumore da farsi sentire sopra ai suoni di una giungla in cui tutti vagano in cerca di denaro, vivendo di bisogni atavici, di oggetti appariscenti, di idoli pagani su cui sfogare una spiritualità diafana perché di natura delicata e silenziosa, inadatta alle urla dei mercanti.
Se dunque l’unico modo per sondare la propria interiorità è una colonscopia, ci si dovrà rivolgere ad altri punti di riferimento, e rieccola, quindi, la pietra maledetta, che contiene i sogni dei mortali senza poterli avverare tutti. Così a vincere la scommessa è solo chi sa urlare più forte e attirare l’attenzione di questo brillante idolo, che inganna fino alla fine.

Peccato, perché dietro la coltre nebulosa dell’opale nero c’erano le stelle del cielo, lo spazio vitale necessario a volare insieme verso qualcosa di nuovo, senza battaglie da combattere.
I’ll fly with you…
Ma certe gemme che portiamo dentro sono destinate a rimanere grezze, così come i sogni da Oscar di Adam Sandler, gabbato nel film come nella professione, preso per un’acquamarina qualunque, senza valore. L’Academy non ha quindi buon occhio per i gioielli, a differenza di Netflix, che si prende i diritti per la distribuzione internazionale assicurandoci almeno la possibilità di tornare più volte su un film intricato, che sicuramente confonde e colpisce a una prima visione e si fa apprezzare sempre più nelle successive. Merito di due fratelli che concepiscono il cinema come esperienza che ha valore in sala e fuori, durante e dopo la proiezione.
Every day and every night…
Un cinema che è unione di artigianato e industria, di grandi progetti e di registi che fanno anche i fonici, un cinema che speriamo torni presto a mostrarci tutte le sue sfaccettaure.
Don’t leave me waiting too long, please come by…
Appendice. Visto che non pensavo avrei mai potuto inserirla in un articolo, colgo l’occasione per lasciarvi la gemma nostrana che impreziosisce il film dei Safdie Brothers, buon ascolto:
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