
Un approccio nomade alla vita. Intervista a Tiago Rodrigues
Triennale Milano ha concluso la sua stagione teatrale con una personale dedicata a un ospite d’eccezione: Tiago Rodrigues. Birdmen Magazine ha deciso di dedicargli un discorso critico in quattro puntate. Qui di seguito l’ultima con l’intervista, concessa in esclusiva per Birdmen grazie a Triennale Milano.
Classe 1977, attore, drammaturgo, regista e, dal 2015, Direttore Artistico del Teatro Nacional D. Maria II di Lisbona, Tiago Rodrigues è tra gli artisti più importanti del panorama teatrale contemporaneo. Nel 2003 ha fondato con Magda Bizarro la compagnia teatrale “Mundo Perfeito” che, in una decina d’anni, ha prodotto oltre 30 spettacoli teatrali esibendosi in tutto il mondo.
Come prima cosa vorrei chiederti cosa ne pensi della critica teatrale. Ti capita di leggerla? Hai mai avuto esperienze in questo campo?
Trovo la critica molto importante. La leggo spesso, non solo quella portoghese, ma anche quella di altri paesi. Ovviamente leggo tutte le critiche sui miei lavori e sono sensibile e aperto a esse. Spesso l’aspetto più importante non è tanto il trovarmi in accordo o in disaccordo con chi scrive, quanto la possibilità di suscitare un pensiero nuovo, non necessariamente su quello specifico lavoro, ma sul futuro. Guardo alla critica come al complice di un artista.
In Portogallo, come Teatro Nazionale, abbiamo collaborato molto con il Centro di Ricerca Teatrale di Lettere dell’Università di Lisbona perché ci fosse uno spazio per il dibattito, la scrittura e il confronto critico nel teatro. Penso che la missione delle istituzioni pubbliche sia quella di supportare il pensiero critico e di collaborare con chi lo produce. Per questo credo che il futuro della critica risieda molto nei teatri, nelle università e nei centri culturali, più che nei giornali o nella radio.
Rimane comunque importante non perdere il contatto col mondo dei media: articoli opinionistici continueranno a esistere anche perché la gente li scrive gratis, certamente. Ma un reportage giornalistico condotto in maniera approfondita sarà sempre più realizzabile unicamente in campo indipendente, con cooperative, siti online e collettivi che si sostengono con supporti o sotto l’ala di università, centri culturali e spazi pubblici. Cerchiamo quindi di fare la nostra parte per difendere la critica teatrale.
Personalmente, ho avuto una breve esperienza con la critica a 17 anni: è stato uno dei miei primi lavori, subito dopo il liceo. Lavorai per un quotidiano locale di Amadora, città nella periferia di Lisbona. Sono contento che questi testi siano difficili da trovare (il quotidiano non era su internet!) perché erano molto naif. Comunque quando li rileggo mi ricordano dell’acerba ma profonda ammirazione che avevo per il teatro, nonostante fossi un po’ ignorante su alcune cose. E anche oggi, nelle cose che amiamo, l’ignoranza persiste. La conoscenza è infinita e ti rendi conto che sei sempre più ignorante ogni volta che fai esperienza di qualcosa di nuovo, ogni volta che cominci a scrivere in modo diverso, a pensare al teatro in modo nuovo.
Il privilegio di avere critici di diversi paesi che scrivono sul mio lavoro mi ha permesso di identificare quello che ancora non riuscivo ad articolare. La critica, dunque, mi permette di capire gli effetti, ma anche le ragioni, della mia praxis, con un background teorico che mi mancava. Per questo vedo i critici come dei complici.

Qual è per te la connessione tra memoria e coincidenze?
Le coincidenze richiedono una spiegazione. Ogni giorno, e talvolta in modo molto forte, incontriamo e lasciamo dietro di noi coincidenze, e ciò significa che ci viene chiesta una spiegazione. Molte volte non sappiamo come spiegarle ed è lì che inizia la finzione, l’immaginazione. Per me non è solo l’inizio dell’arte, ma anche l’inizio della scienza, della civiltà, del pensiero. È un animale [l’uomo, n.d.a.] che un giorno di fronte a una coincidenza all’improvviso disse: “Ma forse…”. Qui ha inizio la civiltà, la politica, il pensiero. Nella società dalle molteplici sfumature nella quale viviamo, dove tutti sono messi di fronte a così tante narrazioni, storie, fatti, informazioni e conoscenze, la coincidenza è la cosa più vicina alla trascendenza.
E a questi interrogativi devo rispondere con qualcosa. Forse è ciò che ho iniziato a fare quando mi sono reso conto che avrei voluto essere un artista. Quando ho iniziato a rispondere alle coincidenze senza preoccuparmi davvero di ciò che era vero, preferendo invece ciò che poteva essere vero.
E poi, naturalmente, c’è lo straordinario potere di tutte le coincidenze letterarie, da Borges a Auster, a Calvino. Le coincidenze, come i labirinti, parlano molto di trasgredire la via consueta. Così hai la strada e hai il labirinto e in un attimo ti sei perso. E la coincidenza è come se avessi di fronte a te A, B, C, D, E, F, G… Cosa? No, c’è di nuovo una A? Che significa? Non è normale! Questo tipo di clic che ti fa apparire diversa la realtà e ti spinge a cercare un altro modo, un’altra prospettiva, è per me il potere della coincidenza.
Ciò che riguarda la memoria, la sua bellezza, è che la memoria si riferisce al passato, ma trovo che sia anche un esercizio del presente. Molte persone quando parlo di memoria dicono che sono ossessionato col passato. No, il passato è passato, ma la memoria è un esercizio presente, dell’oggi, di come usare il passato per essere utili, importanti, rilevanti. Quando usi la memoria, il passato diventa un’altra cosa: non sei sicuro se fosse un lunedì o un giovedì, cosa è successo prima e cosa dopo.
Non è che le coincidenze esistano davvero sempre, a un certo punto inizi a inventarle, a vederle. E ti pongono anche nuove domande. Tutti questi strati eccitano l’immaginazione e penso che portino a pensare diversamente. Quando dico “diversamente” intendo semplicemente uscire dal modo in cui pensiamo solitamente. La coincidenza mi porta a riflettere sul fatto che posso pensare in modo diverso dal solito.
Molte volte la coincidenza è all’origine delle esibizioni che creo, dei testi che scrivo, ritornando sempre durante lo spettacolo vero e proprio. Il mio modo di annotare le coincidenze che vivo e di pormi delle domande su di esse corrisponde al mio modo di creare performance teatrali. Quando mia nonna mi recitò a memoria il sonetto XXX di Shakespeare pensai che fosse collegata a Pasternak. In qualche modo, loro coincidevano, in una diversa geografia. Ho pensato al potere delle parole attraverso il tempo e lo spazio. Riflettendo su questa coincidenza ho pensato di farne uno spettacolo: dovevo cercare di capire meglio il suo significato.

Hai parlato molto di libri e delle vere presenze, nella tua vita e nel tuo lavoro. Trovi ispirazione anche nel cinema e nella serie?
Oh sì, assolutamente. I libri per me sono più vicini al teatro che al cinema o alla televisione a causa della quantità di immaginazione richiesta al lettore. Con i libri mi avvicino a quel sentimento di intimità che provo a teatro. A teatro succede perché la scena, gli attori sono davvero lì, e io con loro. Nei libri perché sono solo con lo scrittore e talvolta sembra che abbia scritto proprio per me.
Certo, il cinema e la tv, che sono ambiti in cui ho lavorato spesso, sono media molto interessanti e a cui amo tornare il più spesso possibile. Mi ispirano molto e sono stati formativi per me. Sono un grande consumatore (anche se non mi piace questa parola), un grande spettatore, di cinema e televisione, in particolare di serie e documentari. Inoltre – è un cliché, ma è vero – le serie oggi rappresentano un luogo di ricerca narrativa estremamente creativo.

Il cinema è uno dei miei grandi riferimenti. Sono una di quelle persone che ritornano sempre sullo stesso film, come Lawrence d’Arabia. Probabilmente l’ho visto centinaia di volte. Sono molto colpito da questo “cinema epico”, dalle grandi narrazioni. C’è qualcosa nel mito, nel monumento ai miti, nei grandi paesaggi di questi film che funziona molto per me. Amo i film di Mankiewicz: Julius Caesar (1953) o persino Cleopatra (1963), che non è un film straordinario, ma rappresenta questa sorta di megalomania della grande e antica età dell’oro del cinema. E poi, imprescindibile, la Nouvelle Vague.
Ci sono poi molti registi indipendenti che sono davvero potenti per il mio immaginario. John Cassavetes è un regista che trovo molto stimolante, anche per come si relaziona con gli attori e la scrittura, in modo collaborativo. Ho imparato tanto da lui: ancora oggi a volte guardo a lui come se fosse un corso di perfezionamento, da vedere per prendere appunti… Cassavetes non lo vivo solo come uno spettatore, ma anche come uno studente. Un regista a cui torno spesso per studiare.

Spesso nei tuoi spettacoli non usi la lingua del paese in cui ti esibisci, prediligendo piuttosto l’inglese, il francese o il portoghese. Questo tuo utilizzo delle lingue ti dà la possibilità di comunicare qualcosa in più, ma può diventare anche un limite per lo spettatore?
Delle lingue mi piace – e penso che sia importante – il contatto immediato con il pubblico. Cerco, se è possibile e interessante per la performance, di lavorare nella lingua del pubblico in modo che le persone possano semplicemente guardare. In alcuni paesi non posso. Il mio italiano, per esempio, non mi permette di esibirmi totalmente in italiano in modo da manipolare le parole a mio piacere.
Talvolta ricorro ai sottotitoli perché è importante usare la lingua originale per motivi drammaturgici. Sopro lo facciamo sempre in portoghese perché molte volte stiamo ricreando o ricordando una scena che è stata eseguita in Portogallo e tradurla non consentirebbe pienamente tale rievocazione: è molto importante che tu possa ascoltare Molière o Cechov in portoghese, anche se conosci il testo nella tua lingua. Penso sia uno spettacolo in cui è fondamentale che le persone ascoltino la lingua portoghese.

Ma anche l’operazione dei sottotitoli deve affrontare la realtà e l’esibizione ha un ritmo diverso ogni volta, quindi… La persona che cura i sottotitoli è davvero come un altro attore, lavoriamo molto insieme e tentiamo di farlo nel modo più delicato possibile. Diventa parte della performance.
L’interesse di lavorare in altre lingue è che da un lato crei anche ostacoli, perché non sei sicuro nell’usare una lingua non tua e al tempo stesso hai una certa libertà, nuova, per cui non controlli completamente la traduzione delle parole. Quando pronunci una certa parola in italiano sai che significa questo, ma anche quello, e nella tua storia personale può significarne un’altra cosa ancora. Ma se dici la stessa parola in inglese, stai solo dicendo quella parola.
Giocare con questa libertà è molto interessante e a volte, per esempio, mi è capitato che dei francesi mi dicessero: “È come ascoltare la mia lingua per la prima volta, perché non stai trasmettendo tutti quegli stereotipi che noi associamo alle parole.” All’improvviso, poiché non controlli pienamente la tradizione di alcune parole, sei più libero e questo dà più libertà anche ai significati.
D’altra parte, in generale nella vita, ho la tendenza alla molteplicità delle parole perché credo che un mondo poliglotta sia più interessante di un mondo monolingue. Un mondo poliglotta considera l’altro uguale, riconosce la voce, la cultura e il pensiero dell’altro. È un mondo che non considera una lingua, un paese o un popolo come il centro della civiltà, ma accetta che viviamo in un pianeta in cui vi è una molteplicità di filosofie, idee, persone e culture, e che possono non solo coesistere, ma anche mescolarsi. La bellezza dell’essere poliglotta è che sei sempre in una bella confusione di traduzione.
Il problema della traduzione nel mondo poliglotta è che crea nuovi significati, crea errori. A volte siamo infedeli mentre traduciamo, diamo vita a neologismi. Mentre quando sei monolingue è come… Hai presente, quando sei bambino, cammini per le strade e fai sempre lo stesso percorso da casa a scuola? Ogni giorno passi vicino a quella strada, ma non ci vai mai. Quella strada è come se non esistesse. Un giorno per caso la percorri e senti che il mondo si apre ed è: “Oh, oh, oh…”.
Questa apertura del mondo, penso, quando sei monolingue, quando parli una sola lingua, quando decidi di parlare una sola lingua come stile di vita, non puoi averla. Farai solo la stessa strada per il resto della tua vita.
Un’ultima domanda. Cosa significa per te viaggiare e portare in giro i tuoi spettacoli?
Da molti anni ho il privilegio di viaggiare come attore, ma anche come regista e scrittore, e di vedere il mio lavoro presentato in diverse città, paesi e continenti. Mi ha davvero plasmato, questo approccio nomade alla vita. Devi dipendere molto dalle persone ed è un’esperienza bellissima perché rafforza continuamente la tua fiducia nell’umanità. La gente ti sta invitando perché vuole che tu condivida il tuo lavoro artistico con la propria comunità. Questo, da quando ho assunto la direzione del Teatro Nazionale di Lisbona, mi ha reso molto attento a come invito e a come ricevo le persone.
Lisbona ha un programma molto internazionale, almeno dalla fine degli anni Novanta. Per me è piuttosto normale andare in un paese ed essere straniero, perché ho visto molti stranieri fare lo stesso in Portogallo. Non è nulla di nuovo, voglio dire, il teatro è ancestralmente un’arte nomade, da sempre praticata negli spazi pubblici, negli anfiteatri, ma anche nelle piazze dai trovatori che rimanevano per alcuni giorni e poi continuavano la loro vita altrove. Penso che sia nella genetica del teatro l’aver bisogno di una casa, ma di una casa effimera.
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