
Show, don’t tell #3 | La trama: Davide Enia e il cerchio che si chiude
Show, don’t tell è una rubrica sulla drammaturgia contemporanea che si articola in quattro sezioni: 1- personaggi: drammaturgia che ha il suo cuore nella caratterizzazione dei protagonisti; 2- riscrittura: drammaturgia basata sulla rielaborazione di testi già esistenti; 3- trama: drammaturgia incentrata sulla concatenazione di eventi; 4- linguaggio: drammaturgia costruita su canali comunicativi eccentrici, anche non verbali.
Il terzo appuntamento è dedicato a Davide Enia, romanziere, regista, drammaturgo e attore, che il 26 novembre, presso il teatro Fraschini di Pavia, ha presentato il monologo L’abisso, vincitore del premio Hystrio Twister 2019.
Quello proposto da Enia ne L’abisso è a tutti gli effetti un teatro di narrazione, in cui la parola, di calviniana esattezza, diventa veicolo al servizio della storia.
Il racconto orale affonda le sue radici nel mito classico, quando il filo narrativo procedeva senza intoppi lungo una linea orizzontale. Proprio l’immagine del filo consente la comprensione, anche etimologica, del concetto di trama.
Le cose hanno cominciato a prendere una direzione diversa col tessitore per eccellenza, il rapsodo. Cucendo insieme le sue storie, l’Omero odisseico si rese conto che tutta quella materia poteva non essere soltanto riordinata in maniera consequenziale, bensì intrecciata, al fine di suscitare nel suo pubblico reazioni sorprendenti. E allora il protagonista dell’opera può entrare in scena centinaia di versi dopo l’inizio vero e proprio e raccontare in prima persona la sua storia riavvolgendo la linea del tempo. Il grande cucitore, proprio come Penelope, tesseva così la sua tela in cerca della trama perfetta, che proprio quando sembrava rivelarsi in tutto il suo disegno, si dissolveva per rigenerarsi, fino all’esaurimento dell’ultimo dei suoi fili.
L’abisso è a tutti gli effetti una moderna Odissea, in cui il protagonista, lo stesso Davide Enia, racconta la sua esperienza a Lampedusa, ombelico del Mediterraneo tanto quanto l’isola su cui incontriamo Ulisse. La chiamata all’avventura viene da un committente, che gli chiede di scrivere una storia sugli sbarchi, da presentare ad un festival; per compiere la sua missione, Davide decide di partire per Lampedusa insieme al padre, cardiologo in pensione, con il quale il rapporto è inficiato da muri di silenzio innalzati un anno dopo l’altro. La storia privata si intreccia così alla Storia con la esse maiuscola, quella degli sbarchi, degli orrori vissuti da famiglie e civiltà altre.
E ben presto lo spettatore si trova immerso in un romanzo vero e proprio: l’azione si sposta nello spazio e nel tempo e si affacciano sulla scena personaggi di ogni tipo, dallo zio Peppe, stella polare nell’universo di “Daviduzzo” e affetto da atroce malattia, al beccamorto che salva i corpi dal mare per dare loro degna sepoltura, passando per i protagonisti di una migrazione che assume le dimensioni di un vero e proprio olocausto.
Un materiale così variegato e troppe volte abusato, rischia di prestare il fianco destro alla retorica patetista e quello sinistro all’incomunicabilità di certi snodi emozionali, ma l’abilità di Enia, oltre che nella forza vibrante della performance attoriale, risiede proprio nella raffinatezza della sua costruzione narrativa. Egli non perde mai di vista la solidità della trama principale: un figlio tenta di ricostruire il rapporto con suo padre nel momento in cui questi sta perdendo suo fratello, che per anni ha fatto da collante tra i due. Quella che tra loro pare una distanza, per l’appunto, abissale, comincia a essere attraversata da una serie di frequenze, simili a onde sismiche, messe in moto dall’esperienza che stanno vivendo insieme. Il dolore indicibile di cui sono muti spettatori li rende consapevoli di una connessione più profonda di quella verbale, una connessione del ritmo vitale, scandito dai battiti di un piede a terra e orchestrato dalla medesima percezione di pericolo, dal medesimo bisogno di salvarsi dalla catastrofe, dal medesimo quartiamento. Il disastro che incombe su di loro è duplice; per così dire, privato e pubblico. Esso risiede nel lutto imminente per lo zio ammalato e nella sospensione a pelo d’acqua dei corpi alla deriva.
Il protagonista deve barcamenarsi all’interno di questa doppia tensione e gli orrori di cui si trova a essere testimone segnano il percorso accidentato della sua missione: che significato assumerà il suo dolore di figlio dinanzi a quello di tutti gli altri figli strappati alle loro famiglie e vittime della furia cieca degli uomini e dei flutti?
Egli comincia a muovere i suoi primi, timidi passi in mezzo a un’ecatombe, in cui sembra celebrarsi il sacrificio dell’umanità stessa, di cui il mare diventa l’altare, nero come la notte che fa da cornice a uno dei racconti più drammatici. Disteso sulle onde, un padre attende la fine dopo aver visto sprofondare la barca di suo figlio. Il rescue swimmer, nel buio più completo, riesce a portarlo in salvo e scorge qualcosa poco più in là; allora si batte, con tutte le forze, contro la corrente e contro l’oscurità, finché trova un piccolo corpo ancora in vita, aggrappato a un pezzo del relitto, lo afferra e lo lancia a bordo della nave della Guardia Costiera, dove il bambino incrocia lo sguardo allucinato di suo padre.
L’Odissea di Davide sta nella compenetrazione di ciascuno di questi destini, alla ricerca delle parole per raccontarli, per esprimere un dolore che si fa sempre più ineffabile. Le storie in cui si imbatte non restano sospese come fotografie da sviluppare in una camera oscura, ma sono piuttosto da immaginare come stanze comunicanti di uno stesso labirintico edificio, che l’eroe percorre, una porta dopo l’altra, mettendo a repentaglio il sentimento stesso della propria esistenza. I numeri agghiaccianti del disastro umanitario gli danno il senso esatto della sua piccolezza, le gesta di chi le vite le ha salvate per davvero gli forniscono l’esempio, lo strazio dei corpi raccontato dalle autopsie lo sprofonda nuovamente nell’orrore, finché, mentre si ritrova a preparare la marmellata di arance, il pensiero dell’insperato salvataggio di un padre e di suo figlio fa vibrare le sue corde più profonde, già pizzicate all’inizio dell’ avventura.
A questo punto gli ingredienti ci sono tutti e l’altalena emotiva può oscillare senza intoppi, ma per quanto cristalline siano già le connessioni all’interno di questa vicenda, il grande narratore sa bene che in ogni storia il suo filo deve riannodarsi al cuore dell’ordito, e non è un caso che a farlo sia proprio il personaggio dello zio.
In una delle sue telefonate racconta a Daviduzzo che nella sua stanza d’ospedale si è ritrovato insieme a due rifugiati, ancora una volta un padre e un figlio. Il piccolo è malato di leucemia, ma il papà, pur nello strazio della propria esperienza, lo invita a inginocchiarsi e pregare insieme a lui per l’uomo che condivide la loro stessa stanza. Eccolo, nelle parole di zio Peppe, “il cerchio che si chiude”.
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