
Bernardo Bertolucci – Politico, cinefilo, controverso
Ricorre oggi l’ottantesimo anniversario della nascita di Bernardo Bertolucci, nato a Parma il 16 marzo 1941: per l’occasione, noi di Birdmen Magazine vogliamo ricordare tre aspetti che hanno reso il regista emiliano una delle voci più importati del cinema italiano e mondiale a cavallo tra Novecento e primi anni Duemila. Politico, cinefilo e controverso, è questo il Bertolucci raccontato da Elisa Torsiello, Federica Defendenti e Benedetta Pallavidino. Buona lettura!

Dopo la rivoluzione – Bertolucci politico
Sono gli anni Sessanta: alla fama degli attori cinematografici si affianca quella di registi emergenti, profeti portatori di una nuova visione della Settima Arte. L’unicità di questa nuova ondata di giovani cineasti si ritrova nella loro naturale capacità di amalgamare al proprio profilo intellettuale quello politico. Tra i confini italiani, ad accendersi è anche la macchina da presa di un giovane ragazzo nato a Parma e cresciuto a Roma: è Bernardo Bertolucci, regista capace di tradurre – spesso anticipandole – le ribellioni dei giovani e la loro voglia di distaccarsi dagli ideali sorpassati dei propri genitori. Un fermento rabbioso, il suo, destinato negli anni a scemare a favore di una mediazione più assertiva. Quello di Bertolucci è un cinema politico influenzato da un autobiografismo orientato prettamente agli insegnamenti impartiti non solo in casa (suo padre era Attilio Bertolucci, uno dei più importanti poeti del Novecento) ma anche e soprattutto da quei contadini che incontrava tra le campagne parmensi. Un viaggio, quello compiuto dai suoi protagonisti, segnato da tanti film quante sono le tappe salienti del suo sviluppo autoriale, e che ritrova in Prima della rivoluzione e Novecento i suoi poli opposti in ambito politico.
A farsi portavoce della ribellione mancata di Prima della Rivoluzione è Fabrizio, giovane dell’alta borghesia di Parma. Insofferente al conformismo del suo ambiente, tenta di evaderne sia con le sue scelte politiche, che instaurando una tormentata relazione erotica con la zia. Il Bildungsroman di Bertolucci si impone a posteriori per la sua carica profetica e anticipatrice delle contestazioni giovanili che animeranno il clima politico a cavallo tra anni Sessanta e Settanta. Se Prima della rivoluzione può considerarsi come un Bildungsroman moderno, tale affermazione non può sussistere nel suo epilogo. Il desiderio di autodeterminazione come individuo e rivoluzionario non si compirà. Nato borghese, ma vicino alla causa comunista, Fabrizio finirà comunque a sottostare a quegli ideali da cui scappava.
Quella del Bertolucci degli anni Sessanta è dunque una rivolta non solo dei singoli, ma anche generazionale, figlia di un tempo difficile come quello dei moti del Sessantotto, che trova nella figura del padre l’obiettivo da scalfire, eliminare, superare. Così è per La strategia del ragno e così è per Il conformista, personale psicanalisi del cinema bertolucciano che mette in dialogo i fantasmi di un passato dicotomico, tra fascismo e resistenza. Ma è con Novecento che Bertolucci scrive il proprio testamento filmico-politico.
Trasferirsi a Roma negli anni Cinquanta ha voluto dire per Bertolucci allontanarsi da Parma, da quella campagna fatta di contadini che gli hanno insegnato tutto, ideali marxisti compresi. Un mondo, questo, che il regista decide di far rivivere in Novecento. Epopea di cinque ore, il film narra la nascita di un’utopia rivoluzionaria tra i lavoratori della terra in Emilia da inizio secolo fino alla caduta del Fascismo. Un’aspirazione all’uguaglianza che ha portato il regista a ideare una massa di lavoratori intelligenti, che avanzano uniti come un fiume in piena. La ribellione di Prima della rivoluzione si attenua, accennando a una nuova possibilità di confronto all’interno di una coralità dove gli opposti si attraggono, si toccano, combattono. In Olmo e Alfredo si ritrovano dunque le due anime di uno stesso individuo, diviso tra l’adesione alla causa rivoluzionaria e l’egoismo di un figlio della borghesia in un incontro/scontro destinato a non esaurirsi mai. Elisa Torsiello

Autore e spettatore – Bertolucci cinefilo
Quello di Bernardo Bertolucci si potrebbe definire un cinema a scatole cinesi, cinema che contiene altro cinema, film che ospitano altri film. A livello visivo, per esempio, è importantissimo il recupero di elementi filmici che il regista opera su pellicole viste e riviste, financo adorate, in una logica a volte citazionista, altre volte allusiva, in ogni caso incentrata su un sistema visivo interessato al dialogo tra autori, linguaggi, pellicole, scene, addirittura generazioni, padri e figli del cinema.
È, quello di Bertolucci, un caso particolare: se altri cineasti si sono professati ladri dietro la macchina da presa e per “mania di possesso” hanno scelto di riprendere scene firmate dai grandi maestri mascherandole, Bertolucci più che a un ladro assomiglia a un fedele che legge con la propria voce testi di grandi profeti. Attraverso la propria lente, Bertolucci inserisce nelle sue storie dettagli carichi di amore, debito, rispetto e omaggio a chi lo ha preceduto.
Sono frequentissimi in questo senso i rimandi alla Nouvelle Vague e al genio di Jean-Luc Godard. A proposito di The Dreamers, per esempio, si può parlare di un vero parallelismo laddove Bertolucci riprende una corsa dei tre protagonisti attraverso il museo del Louvre; scena che rimanda al precedente di godardiana memoria in Bande à Part (1964): in questo caso il lavoro di Bertolucci è propriamente quello che si direbbe un calco. Eppure il dialogo tra autori qui si regge anche su un piano più ampio, una dialettica che non si limita al solo binomio Bertolucci-Godard, ma si estende in prospettiva storica a un trinomio Bertolucci-Godard-Truffaut: anche Godard, infatti, aveva probabilmente ripreso quel tipo di scena – la corsa – (e quella base di triangolo amoroso che anche Bertolucci porta avanti) da Jules et Jim (1962) di François Truffaut.
In questi tre film risulta allora evidentissima una sorta di parentela cinematografica, ma il dialogo tra autori non si ferma qui: il rapporto con la Nouvelle Vague non si limita a queste citazioni, anzi, il cinema di Bertolucci è spesso in linea con la corrente francese sia sul piano di un montaggio le cui regole sono sovente sovvertite, sia sul piano politico, cui si approccia schierandosi senza remore.
Pensare a Bertolucci cinefilo significa però anche individuare le incursioni metacinematografiche che il regista propone allo spettatore; si pensi a Ultimo Tango a Parigi (1972) in cui Maria Schneider e Jean-Pierre Léaud (anche questa una scelta interessantissima data l’importanza dell’attore Léaud nel panorama della Nouvelle Vague) sono fidanzati e stanno girando un film di cui quest’ultimo è regista. Bertolucci mette in campo tutti i caratteri della propria esperienza registica, la sostanziale impreparazione degli inizi e la preponderanza dell’idealismo giovanile: Léaud è un regista che si muove in maniera schizofrenica nello spazio, incapace di ascoltare, di dare tregua alle riprese e alle proprie visioni. Oppure ancora, in una scena fondamentale di Prima della rivoluzione (1964), Fabrizio e l’amico parlano a lungo di cinema e dei suoi protagonisti: Anna Karina, Rossellini, Humphrey Bogart, Godard, Hitchcock. La cinefilia di Bertolucci proiettata su personaggi di finzione, in questo senso vere espressioni programmatiche di un cinema nel cinema.
Indimenticabile poi il rapporto con Pasolini, di cui il nostro sarà assistente alla regia in Accattone. Gli esordi cinematografici negli stessi anni e il lavoro a stretto contatto legarono Bertolucci e Pasolini in grande comunione artistica: fu infatti Pasolini stesso a scrivere il soggetto del film d’esordio di Bertolucci, La Commare Secca (1962), pellicola legata all’autore bolognese anche da una certa cifra stilistica nella scrittura e nella ripresa.
Non c’è dubbio che Bertolucci abbia sempre cercato un dialogo sia da fruitore affascinato del cinema, sia da addetto ai lavori, circondandosi di colleghi stimati e omaggiandoli attraverso le proprie opere, in una continua tensione tra l’essere spettatore e autore. Federica Defendenti

Conforme all’ambiguità – Bertolucci controverso
Con gli anni Settanta sopraggiunge una nuova fase per il cinema di Bernardo Bertolucci: cresce, evolve e matura. Il discorso politico ed esistenziale si afferma attraverso un’ambiguità sempre più pregnante che lo porta a dar vita a due dei suoi film più controversi, quelli di cui forse ancora oggi si parla maggiormente. Il conformista (1970) e Ultimo tango a Parigi (1972).
Il conformista, tratto dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia, è una, a tratti aderente e a tratti scostante, trasposizione per immagini e azioni di come l’uomo tenda a conformarsi nella speranza di discostarsi da una adulta presa di consapevolezza. Marcello Clerici, docente di filosofia e spia fascista, decide di accettare una missione delicata – uccidere un dissidente politico –, convinto che una morte “giusta” possa alleviare il peso dell’omicidio commesso da adolescente, quando uccise l’autista che voleva abusare di lui. Marcello si allontana dalla famiglia d’origine, dal fervente cattolicesimo del padre e sceglie di percorrere una strada che lo possa portare alla stabilità e alla sicurezza. Eppure l’incertezza si insinua proprio quando dovrebbe essere spazzata via: si inizia con l’attrazione per la donna sbagliata, non più sua moglie, ma quella del professor Quadri, l’uomo da eliminare, per poi arrivare a un epilogo e a una presa di consapevolezza che mettono radicalmente in discussione ogni azione compiuta dal protagonista. Bertolucci punta su un finale differente, che totalmente si discosta da quello del romanzo, per mettere l’accento su come l’uomo si lasci guidare dalle proprie convinzioni che finiscono con l’abbandonarlo e lasciarlo lì, in bilico, davanti ai propri errori e alle proprie ragioni. Ma il mondo scorre troppo veloce, i temi cambiano e nuove posizioni vanno prese per cercare di sopravvivere, di rimanere a galla, per poter passare inosservati in un corteo che inneggia alla liberazione.
In un percorso che punta sulla ribellione e sulle controversie, Bertolucci osa, si spinge oltre ogni limite di ammissibilità per gli anni Settanta e nel 1972 gira Ultimo tango a Parigi. Già rodato nel raccontare amori scomodi – ultima prova ne era l’interesse non celato di Anna per Giulia ne Il conformista –, il regista parmense incentra sull’erotismo il suo film più scandaloso. Il sesso e l’eccitazione – l’orgasmo censurato di Maria Schneider – sono la via più diretta per dar voce a un urlo liberatorio, per far sì che l’essere umano emerga e si mostri nelle sue bellezze e nelle sue brutture. Bertolucci riunisce in un’unica pellicola – che è una grande dichiarazione d’amore per la settima arte – i figli rivoluzionari del cinema: Marlon Brando, emblema dell’Actors Studios, e Jean-Pierre Léaud, attore feticcio della Nouvelle Vague. L’arte per Bernardo Bertolucci è passione vibrante, è rischio, è l’ebbrezza di avere il potere e di perderlo, è il non rivelare la propria identità per dare libero sfogo alle pulsioni senza dover rispondere a regole, codici e buone maniere.
La scomodità di uno sguardo controverso e vorace, tagliente nel suo rigore è uno dei fattori che determina l’autorialità di Bertolucci e lo eleva a maestro tra le voci fuori dal coro. Benedetta Pallavidino
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