
EO – Fenomenologia dell’assurdo a partire da un asino
[EO è attualmente tra i candidati della 95a edizione degli Academy Awards come Miglior film straniero].
«Quello che amo [in Skolimowski] è che fa continuamente la spola tra il particolare e il generale. Descrive nello stesso tempo l’individuo e quello che gli sta intorno, e lo fa meglio di chiunque altro […]. Che fare visto che non so fare film polacchi e disperati come Jerzy Skolimowski? Si, che fare?». Così nelle parole di Jean-Luc Godard si condensa il cinema del regista polacco, un de-scrivere che è tracciare, seguire il movimento tra il particolare, ossia la singolarità di ogni essere e la sua relazione con il generale, il mondo. Un tracciare che destituisce gli schemi in cui si articola la narrazione tradizionale e proprio in questa destituzione formale sta la potenza di ciò che (si) mostra. E cosa si mostra nel viaggio infernale dell’ultimo film di Skolimowski? EO, premio della giuria al 75o
Festival di Cannes, si apre con la materialità di una luce rossa stroboscopica che inonda la scena di uno spettacolo circense, una danza vitale di una giovane e di un asino ripresa con alternanza di movimento vorticoso e immobilità, per chiudersi con un suono elettrico che sul nero segna la fine del corpo vivo della materia. Dopo la separazione forzata della giovane Kasandra e del suo amato asino Eo, causata dalla chiusura del circo a seguito delle proteste contro lo sfruttamento degli animali ha inizio il peregrinare senza meta di Eo, con i suoi grandi occhi spalancati, sospinto da un capo all’altro dell’Europa continentale. Un viaggio costellato di incontri casuali e di accadimenti efferati. Come se ogni accadimento esistesse nell’atto di segnarne la fine. Come se ogni apparizione si rovesciasse nel suo contrario, mostrandone la dimensione di scarto, il non senso. Una frammentazione già sperimentata nel precedente 11 Minutes dove la scansione della forma si dilata a tal punto da diventare materia narrativa, decomposta, esplorata da differenti angolature, il cui elemento motore è il caso, l’evento imprevisto che quasi cristologicamente investe le esistenze, le quali tuttavia nella loro trama fagocitante non ne colgono il risvolto decisivo, differenziale, consumandolo al pari di un trascurabile frammento di ripetizione indistinta.

Tale indistinzione si situa ad un livello lirico in EO. Già a partire dal titolo, soggettivo e oggettivo si rovesciano inevitabilmente. Eo. E-O. Eeee-Oooo. Un verso. Il raglio dell’asino è al tempo stesso il nome del protagonista e il titolo del film. A partire dal momento in cui ciascuno lo pronuncia potremmo dire che a sua insaputa si identifica con l’animale in questione. EO non mette in scena la contrapposizione tra mondo animale e mondo umano, remissività dell’uno e violenza dell’altro, contrapposizione del tutto idealistica tra l’altro. A differenza dello straordinario antecedente che si intende omaggiare, Au Hasard Balthazar di Robert Bresson, ispirato da un brano dell’Idiota di Dostoevskij sul ragliare di un asino al mercato cittadino che risveglia il principe Myskin, l’asino protagonista del film di Skolimowski è a tratti antropomorfizzato (ha emozioni, ricordi, affezioni) in quanto assume su di sé una funzione speculare: la concrezione dello sguardo. In che modo se non infatti attraverso l’incarnazione nello sguardo di un “asino” l’immagine riduce il soggetto della visione a suo oggetto? E non è un caso se la scelta dell’asino abbia una connotazione politica in quanto soglia di ciò che è “altro”. Sono la scansione filmica e i movimenti della camera a dirci che i salti tra soggettivo e oggettivo, lo scivolare dello sguardo della camera in quello del protagonista non sono semplici soggettive. Ma i tratti di una fenomenologia dell’assurdo.

La tendenza alla sperimentazione di Skolimowski sembra importare la logica visuale dell’espressionismo per cui quando Eo è ancora parte dell’inquadratura si compie il passaggio del punto di osservazione tra il mondo come percepisce l’asino e il mondo come percepito dall’asino. Questa posizione simultanea di ciò che è visto mentre vede, di un occhio padrone della visione e nello stesso tempo vittima dello sguardo (e non solo), non è forse la posizione di ogni soggetto e del cinema stesso? Cosa ci dice questa scissione che abita la visione se non l’assurdo della vita esposta allo sdoppiamento e all’ambiguità? Quasi nietzsceanamente ogni accadimento che scandisce l’inarticolato viaggio di Eo rivela come per un’effrazione il suo rovescio, come quel reale che in Lacan è il crollo della realtà, ossia di ciò che scorre immaginariamente in modo ovvio e opaco. Sotto traccia l’assurda invisibile anarchia del denaro. Indice di una dematerializzazione dell’esistenza che oggi soggiace impercepita nella dispersione 2.0 di una non comunità.

Dalla causa etica degli ambientalisti che si concretizza nel momento di fallimento dell’attività circense alle ecosostenibili pale eoliche che tranciano il corpo di un corvo in volo, dalla tecnologicissima caccia alle volpi da pelliccia alla bucolica atmosfera del centro di pet therapy, dalle opposte violente tifoserie di calcio che prendono l’asino a simbolo della vittoria e della sconfitta fino al vagabondaggio del giovane prete legato alla matrigna da un quasi incesto – Isabelle Huppert fa la sua apparizione dissonante come un meteorite agli occhi degli spettatori – il puzzle disarticolato del film sembra fare i conti con la capillarità di un potere ambivalente senza volto né materia. Nel mezzo eroi più solitari come il veterinario dedito al lavoro, il camionista sgozzato di notte senza motivo, la prostituta che divora patatine, e gli altri animali, liberi e no, tutti in fondo prigionieri quanto l’asino protagonista. Una molteplicità che traccia l’ovvia fenomenicità dell’esistenza e la sua assuefazione distratta, mostrandone allo stesso tempo il buco nero di una deriva senza rimedio.
La doppia articolazione del movimento per cui la traslazione nello spazio (anche nella sua staticità) incontra il taglio della sua durata rende conto di quella “matericità” dell’immagine che è una gradazione della vita stessa, per dirla con Deleuze. In EO, un tracciato dove il disequilibrio tra il linguaggio emotivo bressoniano e il linguaggio visuale più radicale si fa dissimmetria, scarto di movimento e staticità, ciò che si sottrae alla perversione dell’oggettività e della soggettività è proprio la materia dell’immagine nella bellezza dell’abbandono all’Infinito. Un infinito quasi di leopardiana memoria: le distese argentate delle foreste, la macchina della natura che riproduce sé stessa, i rari buoni incontri nell’imprevisto della vita. Eppure, non è sotto questo segno il finale di EO. L’infinito non contiene infatti in sé ciò che lo preclude, la fine, non quale alternativa dualisticamente intesa? Una fine, tuttavia, quella presentata da Skolimovski a differenza di Bresson, “umana”, troppo umana. Un placido, inconsapevole convogliare in un branco di pecore che indifferente si avvia verso una fine organizzata, pianificata, senza possibilità di reazione e di parola. Una sintesi disperata del rapporto della singolarità con il mondo, per tornare alle parole di Godard.
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