
Dire addio al linguaggio – Adieu au langage di Jean-Luc Godard
Ci sono registi che passano alla storia perché i loro film si impongono nella memoria degli spettatori come testi fondativi; poi ce ne sono altri che attraverso i loro lavori sanno intercettare le ferite aperte del presente, interrogandosi attraverso le immagini. C’è infine un gruppo (numericamente assai inferiore agli altri due) di registi che sanno inoltre utilizzare le immagini come forma di pensiero e adoperare il cinema (anche) come strumento di metariflessione sulle immagini stesse e sull’ecosistema visivo più in generale. Fra di essi un posto di primo piano è senza dubbio occupato da Jean-Luc Godard, la cui opera ha attraversato epoche diverse della storia del cinema, mantenendo grande coerenza e rivelandosi sempre capace di interrogare il presente e il ruolo delle immagini in questo mondo in rapida mutazione.

È da qualche giorno arrivato su MUBI il penultimo film del regista, quel Adieu au langage – Addio al linguaggio che nel 2014 ha in qualche modo portato all’estremo i presupposti del cosiddetto “terzo periodo” della sua opera (che sarebbero poi stati ulteriormente fatti esplodere dal successivo Livre d’image del 2018). Si potrebbe dire, come diversi hanno provato a fare, che questo film è il racconto di una coppia di amanti che finisce per non parlare più la stessa lingua e quindi per separarsi, eppure il film è molto più di questo. Anzi, Godard sembra voler rifuggire qualsiasi spiegazione causale all’associazione di immagini, suoni e parole che ci propone in questa sorta di viaggio ai confini delle possibilità della significazione audiovisiva. È come se fossimo arrivati ad un punto tale per cui le interruzioni della narrazione già presenti in film come Pierrot le fou (1965) avessero alla fine fagocitato l’intera materia del film.
In un suo libro ancora inedito in italiano e dedicato proprio a Godard, Didi-Huberman si è soffermato piuttosto di recente sulla potenza creatrice del montaggio godardiano e sulle possibilità teoriche dischiuse dalla sua opera. In continuità con l’idea benjaminiana di un’immagine dialettica, Godard approderebbe quindi a questa particolare forma cinematografica perché essa è forse l’unica in grado di innescare – attraverso connessioni imprevedibili e finalmente liberate dalla consequenzialità logico-narrativa – le vere potenzialità del medium. Il linguaggio da cui il titolo del film annuncia l’addio è insomma anche (soprattutto?) il linguaggio del cinema, visto qui non come un mezzo espressivo necessario ma come un vincolo. Soltanto liberandosene è possibile (questa almeno sembra essere la scommessa di Godard) una nuova esperienza dell’immagine.

Si potrebbe pensare che questo tipo di approdo corra il rischio dell’autoreferenzialità o, peggio, del ripiegamento estetizzante. Per Godard, in realtà, la posta in gioco non smette mai di essere politica e di fare i conti con il presente. Come era stato nelle Histoire(s) du cinéma (1988), dove Godard interrogava in senso critico la storia del cinema illuminandone punti oscuri e compromissioni culturali, anche qui è proprio attraverso il gioco del montaggio e nel rapporto mai pacificato fra parola e immagine che emerge l’afflato politico del film. La fruizione estatica che Adieu au langage sembra richiedere allo spettatore non si traduce insomma in una sorta di trance sensoriale; al contrario, la forma così dura e a tratti respingente del film è la precondizione necessaria a porre chi guarda di fronte alla necessità dell’interrogazione (su di sé, sul mondo, sulle immagini).

Credo che in questa direzione vada anche la ‘masterclass’ tenuta da Godard il 7 aprile 2020 in diretta su Instagram. Inquadrato in verticale, dalla sua casa in Svizzera e sempre con il suo iconico sigaro, Godard ha offerto una folgorante sintesi della sua poetica, sempre orgogliosamente adesa al presente. È certo difficile immaginare quali potranno essere i prossimi progetti del regista, ma la sua capacità di raccogliere le sfide del contemporaneo meglio (e spesso prima) degli altri mi pare emblematicamente testimoniata da questa scheggia comunicativa. In un mondo che urge immaginare nuovamente in questa età post-pandemica, lo sguardo profondo di Godard e la sua capacità di mettere sotto accusa la complicità fra sistema delle immagini e politica possono fungere da preziosa direttrice di lavoro.
Bibliografia
Georges Didi-Huberman, Passés Cités par JLG. L’oeil de l’histoire 5, Les Éditions de Minuit, Parigi 2015.
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