
Il cinema in radio: Jean Seberg nel radiodramma di Paolo Taggi – Parte 1
Come suggerisce il titolo, la volontà di quest’articolo è di ripercorrere la vicenda di una delle più celebri dive della storia del cinema, Jean Seberg. Tuttavia per farlo prenderemo come riferimento un’opera di un altro media: L’insostenibile fragilità dell’essere, originale Radiofonico in sette puntate (ascoltabili cliccando qui), prodotto da Francesca Giorzi per Rete Due Rsi – Radiotelevisione della Svizzera Italiana, regia di Paolo Taggi, in onda su Rete Due della RSI da domenica 9 maggio a domenica 20 giugno 2021 e in replica su Rete Uno.
Jean Seberg, nata e cresciuta a Marshalltown, piccola cittadina del midwest americano, esordisce sul grande schermo con Santa Giovanna, grazie alla volontà del maestro Otto Preminger. Nonostante i primi film (americani) non riscuotano particolare successo, nella fase successiva della carriera Jean Seberg impone la sua fama a livello internazionale. Chiamata da Jean-Luc Godard ad interpretare il ruolo da co-protagonista in Fino all’ultimo respiro, la giovane attrice presto diviene il volto simbolo della Nouvelle Vague francese (qui un articolo di approfondimento). Il radiodramma scritto da Paolo Taggi, con il quale abbiamo chiacchierato nell’intervista che segue, è ambientato a Parigi, durante gli ultimi giorni di vita di una diva ancora giovane, sebbene già sul viale del tramonto. Questa prima parte dell’intervista (qui è disponibile la seconda), divisa in due articoli (dati i diversi argomenti trattati), è incentrata sulla doppia figura della Seberg, come diva e come donna.

Qual è secondo lei l’eredità che la celebre diva ha lasciato ai posteri? Da dove comincia la scrittura della sua Jean Seberg?
Sono partito da un dialogo che ho trovato riassunto per una straordinaria coincidenza in un libro quasi sconosciuto: Jean Seberg incontra uno studente. Lui la riconosce, stupendola. Parlano per qualche minuto: poi lei lo saluta gentilmente e gli sussurra : “Dimenticatemi di meno”. L’abbiamo dimenticata di più di quanto meritasse. Lei e l’altra. Le due Jean Seberg – la persona e l’attrice – rappresentate da due personaggi lontani tra loro: Patricia, di A bout de souffle e Lilith, protagonista dell’omonimo film di Robert Rossen. C’è una Jean Seberg generosa ai limiti del controproducente (capace di regalare una pelliccia alla moglie di un tassista, quando scopre che non avrebbe potuto festeggiare il compleanno; invisa alle donne del Black Power perché la vedevano una intrusa nel loro dolore).
C’è una Seberg che combatte una fragilità insostenibile, che paga il successo inaspettato e troppo rapido; la sua bellezza che – come ha scritto un suo ex marito – forse aveva sbagliato persona. C’è una Seberg sedotta e una seduttrice, angelicata e diabolica. Il cinema ha preteso secondo me di separare l’attrice, i personaggi e la persona, e questo non ha fatto che renderla sempre più lacerata, combattuta, contesa. Ho immaginato che negli undici giorni tra l’uscita di casa, dopo aver visto Chiaro di donna e il ritrovamento nella sua Renault bianca, non lontano da casa, Jean Seberg abbia rivisto i film della sua vita e scoperto o riscoperto che in ognuno c’era una traccia, un frammento vivo di lei.

tuttavia non sarà assegnata a lei quella parte.
C’è molto di Jean Seberg in un articolo su Lilith che ha scritto per i Cahiers du cinema. E’ arrivata troppo presto. E ha pagato l’anticipo in ogni momento della sua vita. E’ una figura moderna, rispetto al cinema e alla società.
C’è molto di lei ne L’insostenibile leggerezza dell’essere (di qui il titolo del mio radiodramma), uscito quattro anni dopo il film, di cui Kundera è stato co-sceneggiatore. Non a caso Alexander Diego, adolescente quando prima lei e poi il padre, Romain Gary si sono tolti la vita, si è laureato anni dopo con una tesi proprio sull’autore de Il valzer degli addii. C’è una Seberg in scena e fuori scena anche in Chiaro di donna, il suo film più importante, che non ha mai interpretato.
Lei è Lydia, cioè Romy Schneider, e la donna che non appare ma scrive il copione. L’assente, che ha chiesto al marito una notte di tempo per uscire di scena. Il paradosso è che ad un certo punto, nella mia interpretazione, Jean scopre che la parte che avrebbe voluto era proprio quella della donna invisibile: una fotografia in uno specchio scheggiato. Sarebbe stata, dice a Romain, la sua interpretazione più intensa. La Seberg che si ritrova in quei giorni sconosciuti sulle copertine dei saggi, nei negozi per cinéphiles, nelle retrospettive delle piccole ma vitali sale d’essai di Parigi è solo un’immagine -la sua- dalla quale, come una decalcomania, si è staccato il sentimento, che lei per prima non ritrova più.
Quanto è stata lunga la gestazione del radiodramma? Può raccontarci come si approccia un complesso lavoro biografico e di ricostruzione di un’epoca?
Dentro un lavoro come questo ci sono i mesi della ricerca e gli anni stratificati di letture e passioni. Ci sono le diverse mie personalità: c’è il giovanissimo critico cinematografico che sono stato, il fascino di Parigi, l’innamoramento per una frase di Chiaro di donna, che ho messo in apertura di un mio libro che ho pubblicato a 28 anni da Sellerio, Di niente, del mare: “Siamo tutti condannati a gettare messaggi dentro le bottiglie. Solo che non c’è più mare. Ci sono solo bottiglie”.
C’è la riscoperta dei romanzi di Gary/Ajar e della Nouvelle Vague. Oltre questo sub-strato ci sono poi i mesi di preparazione vera e propria. La prima intuizione, i discorsi con la responsabile della prosa Rsi, Francesca Giorzi e l’ascolto di quella miniera di eccezionali prodotti che Rete Due di Rsi ha prodotto in questi anni. Diversissimi, ma con in comune una straordinaria energia.

Per scrivere, bisogna leggere molto. Sapere il più possibile del tempo, del luogo, del sentimento del tempo in cui si colloca il nostro racconto. Ho camminato, osservato, cercato connessioni, visto e rivisto frammenti di film. Mi è stata preziosa una piccola sezione Seberg alla Cinémathèque di Bercy, come dei libri apparentemente fuori tema , come Si Paris m’étais chantée, straordinario viaggio tra le strade cantate della Ville Lumière. Ho vagato tra i bouquiniste e le sale rimaste o perdute e poi ho scritto di getto. E poi ho scelto insieme a Francesca gli interpreti e iniziato la fase di realizzazione vera e propria. La scelta di molti dei miei ultimi lavori –documentari e adesso originali radiofonici- è legata ad una particolare attenzione alle Coincidenze.
La sua Jean mi ha spesso suscitato due sensazioni opposte tra loro: da un lato di muoversi in accordo ad un piano studiato al dettaglio per smascherare una sorta di ipocrisia presente nel cinema; dall’altro un profondo senso di smarrimento, come se non sapesse più chi è, e non avesse più la forza di andare avanti. È solo una mia proiezione?
L’insostenibile fragilità dell’essere.
Ho scelto questo titolo prima fra tanti, poi la scelta si è ridotta a due: questo e Per sempre mai, reinterpretazione di una frase di un film di Leo Carax. Alla fine è rimasto L’insostenibile. Per gli straordinari legami tra la vicenda narrata e il fortunatissimo romanzo di Kundera, prima di tutto, che rivelo nel finale del radiodramma. I titoli sono spesso, nella mia esperienza, un ponte di familiarità che lanciamo allo spettatore perché si avvicini a qualcosa di nuovo con più fiducia e qualche elemento di interpretazione iniziale.
In questo caso L’insostenibile fragilità è l’essenza della storia. Riguarda Jean, Romain Gary e persino la loro vittima innocente: il figlio, che a cinquant’anni finalmente ha trovato la forza di scrivere la sua esperienza, con un inizio folgorante, un grido trattenuto per anni: “Con tutto il rispetto per i morti, adesso silenzio! Parlo io…” Jean Seberg ha cercato nel numero e nella varietà di uomini che hanno punteggiato la sua vita breve un punto di riferimento che non poteva trovare, prima di risolvere i conti con se stessa. Cercava un padre e faceva da madre. Cercava l’eccesso e ne aveva paura Chiedeva molto agli uomini, in fatto di sesso, e lo detestava.
Mi è venuta in mente una frase di cui non ricordo l’autore: “Quando getteremo la maschera il volto sottostante rivelerà noi stessi”. Quando aveva cominciato a indossarla, questa maschera, Jean? Quando era una ragazzina di Marshalltown. Quando si è presentata, fragilissima e determinata, al grande regista che cercava la ‘sua’ Giovanna D’arco? Quando ha mostrato le sue bruciature a Francois Sagan, conquistandosi il ruolo di protagonista di Bonjour, Tristesse? Quando ha capito che i titoli dei suoi film si legano l’uno all’altro e formano un involontario, struggente, stupefacente racconto?

Colpisce la fragilità che traspare in Jean durante l’intera narrazione, penso al racconto del suo debutto impegnativo, sotto la direzione di Preminger, o alla diffamazione subita ad Hollywood, o ancora a Costa-Gavras che le nega il ruolo di Lydia per una sorta di mancanza di fiducia. Come è possibile allora che Jean Seberg sia diventata un’icona degli anni sessanta, nonostante i molti attriti nell’industria cinematografica?
I ricordi, prima di tutto: una famiglia lontana dalle luci della ribalta, tranne la nonna materna, cavallerizza di circo mancata. L’America delle certezze tranquille. Jean, ancora bambina, legge in pubblico Il piccolo principe. Poi vede The Men, con Marlon Brando, e decide di diventare attrice. La sua prima volta che sale sul palco, in un teatro amatoriale, è nei panni di Giovanna d’Arco nel dramma teatrale di Maxwell Anderson.
Un segno del destino. Mesi dopo, in un cinema della east coast scopre da un cinegiornale che Otto Preminger cerca l’interprete del suo futuro Kolossal: Saint Joan, appunto. Diciottomila giovani americane rispondono all’appello. Anche Jean, che invia il suo brevissimo curriculum tramite un mecenate di Marshalltown. Quando il mostro sacro del cinema la vede, tutte le altre scompaiono ai suoi occhi. Una storia folgorante. E lancinante. Il clamoroso insuccesso di Saint Joan non influisce sull’ascesa dell’incantevole outsider. Il film successivo è Bonjour, Tristesse, un titolo emblematico. Il romanzo originale ha fatto la fortuna di un’ altra giovanissima: Francois Sagan.
Le loro vite si parleranno a distanza. E’ allora che Truffaut, Chabrol e Godard vedono nella ventenne americana tutti i visi del mondo e ne fanno, con A bout de souffle l’icona della Nouvelle Vague. Quando arriva sulla vetta, Jean ha solo vent’anni. Il resto del tempo è soltanto ritorno. Le promesse dell’alba sono naufragate in fretta in uno scosceso, interminabile tramonto. Che lei ripercorre senza farsi sconti. Delle somiglianze con i personaggi che interpreti te ne accorgi dopo. Oppure le esperienze che vengono dopo ti portano ad assomigliargli, anche se li hai dimenticati. Un insospettabile filo conduttore la mette di fronte a quello che è diventata. O che avrebbe potuto essere e non è stata.

Nel nostro racconto, ripercorrendo i film nel ricordo, o rivedendoli nelle cineteche e nelle piccole sale d’essai Jean ritrova parti vive di sé. Anche in quelli più lontani e meno autobiografici, girati per sfida, scommessa, un pugno di dollari o il bisogno di una residua popolarità. C’è qualcosa di profondamente suo nella diciannovenne pittrice americana arrivata da Chicago di In The French style, che fa innamorare un sedicenne, nell’oggetto del desiderio conteso e indeciso della Ballata della città senza nome di Logan, nella donna all’incrocio di intrighi internazionali di Criminal Story, di Claude Chabrol, nella “signora bella come una diva” di Bianchi cavalli d’agosto di Raimondo del Balzo; nella moglie in crisi che scopre valori sconosciuti di Questa specie d’amore, di Alberto Bevilacqua e soprattutto Lilith, la farfalla prigioniera di una ragnatela impazzita nel film firmato da Robert Rossen.
C’è molto di lei nelle immagini mute e sovraesposte di una donna disperata in Les Hautes solitudes, di Philippe Garrel, che pochissimi hanno visto.
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