
Jean-Luc Godard: il più giovane influencer del cinema
Jean-Luc Godard è nato nel 1930, ma è ancora oggi il più giovane influencer del cinema. La giovinezza eterna, Godard se l’è guadagnata col suo cinema, che come molti profili di Instagram ha la caratteristica di non essere concepibile, non essere apprezzabile, non risultare credibile se non si hanno vent’anni all’anagrafe o almeno nell’anima.
Ogni volta che un’ombra di vecchiaia ha toccato lui come artista, oppure i suoi spettatori, improvvisamente la magia è svanita: da una parte perché, dopo gli “années Karina” (1960-’67), Godard si è trasformato in un indisponente rivoluzionario troppo anziano per il ruolo, e dall’altra perché guardare i suoi primi film senza lo stupore della gioventù negli occhi significa notare tutti i loro limiti. Jean-Luc Godard
D’altronde Godard è stato, insieme a François Truffaut, il più noto esponente della Nouvelle Vague, e la missione di quel gruppo fu proprio quella di sfidare i canoni della classicità attraverso un generale senso di follia sbarazzina, briosa e, appunto, giovanile. Jean-Luc Godard
Ecco quindi che rivedere i due ex sposi, Godard e Anna Karina, reincontrarsi alla tv francese in stile C’è posta per te dopo vent’anni dal divorzio, con lei che presa dall’emozione si allontana dallo studio, ferisce profondamente proprio perché due così non dovrebbero mai lasciarsi, né invecchiare. Però il giovane Godard è esistito, e grazie all’eternità della celluloide i ventenni del 1960, del 2020 e probabilmente del 2080 hanno potuto e potranno ancora guardare Fino all’ultimo respiro (1960) sognando di fumare una Gauloise sugli Champs-Élysées come Belmondo, struggersi vedendo una lacrima solcare il volto di Anna Karina in Questa è la mia vita (1962), sentirsi «figli di Marx e della Coca-Cola» come ne Il maschio e la femmina (1966) e imitare scanzonati il balletto al juke-box dei protagonisti di Bande à part (1964).
A partire dall’esordio con Fino all’ultimo respiro (1960), l’occhialuto regista con la s difettosa, il ghigno perverso e l’immancabile sigaro in bocca non ha perso un minuto: 15 lungometraggi in 7 anni, dal Disprezzo (1963) a Il bandito delle 11 (1965), da La cinese (1967) a Una storia americana (1966), con i quali ha influenzato un’intera generazione, da Bertolucci (suo eterno devoto) alla New Hollywood.
Il matrimonio con Anna Karina, attrice danese scoperta in una pubblicità della Palmolive, porta a una collaborazione che dura ben sette film, e Instagram ancora ringrazia: Godard, con le sue immagini belle come quadri e i suoi motti perfetti come didascalia intellò, si guadagna un posto come eterno influencer, e Karina come icona degli account cinefilo-fighetti quasi al pari di Frida Kahlo.
Sì, perché Godard è il regista perfetto per questa nostra epoca di fotogrammi, slogan e clip: la sua è un’opera costantemente citata per sineddoche attraverso i suoi frammenti più conosciuti o degni di nota, i suoi highlights, ma non tutti i suoi fan potrebbero giurare di guardare i suoi film per intero, o presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro. Cool, cult, corto: il cinema di Godard è più visto quando è in pillole, perché è nella bellezza pura di una Bardot nuda sulle note di Georges Delerue che funziona meglio, nel gesto di Jean-Paul Belmondo di passarsi il dito sulle labbra come Bogart, nei balletti di Anna Karina e nei tanti motti sparsi qua e là come «La fotografia è verità, e il cinema è la verità ventiquattro volte al secondo» e «Perché hai l’aria triste? Perché mi parli con delle parole, e invece io ti guardo con dei sentimenti».
Lo stesso Godard-personaggio è stato al suo meglio quando, sempre a metà tra il crudele e il ridanciano, mostrò come aveva camminato sulle mani per la Bardot, quando a Cannes si beccò una torta in faccia, quando si scagliava contro la televisione, quando lo si vedeva chiuso nella sua sala di montaggio come un vecchio scienziato pazzo nel suo antro o quando, come il 7 aprile 2020, quasi novantenne e col solito sigaro, si è offerto per una diretta Instagram.
Scavare più a fondo, immergersi nella sua filmografia con occhio meno distratto, significa alzare il velo del mago di Oz che è e scoprirlo spesso perso in uno sperimentalismo fine a se stesso, in un intellettualismo vacuo, in una verbosità di dialoghi che sono sì poetici, ma non sempre la poesia fa buoni dialoghi. Per non parlare poi della vena intrapresa dopo il Sessantotto, quando in preda a una radicalizzazione più chic che sincera lo si può sentir predicare come il peggior capetto da collettivo universitario, tra discorsi sugli operai, deliri maoisti e titoli come Crepa padrone, tutto va bene (1972).
Saranno proprio quegli atteggiamenti che porteranno alla dolorosa rottura con il fratello di cinema Truffaut, con lettere di insulti reciproci e un silenzio che non verrà mai rotto prima della prematura morte del nemico-amico nel 1984. Sarà però ancora più commovente vedere il sempre gelido Godard, interpellato su di lui in tv, rimanere in silenzio e poi dire: «Penso che mi protegga, a modo suo».

Il Godard più memorabile resta quello che fa commedia (anche nei drammi): il suo talento brilla di più nello sberleffo, nell’allegria, nel romanticismo, nella Pop Art, nel nonsense, nelle conversazioni che diventano canzoni, nei colori saturi che usa meglio di tutti, nella libertà per il gusto della libertà, in tutta la sua insensatezza. Il suo è lo stile che più di tutti ha insegnato a Wes Anderson (altro grande idolo di Instagram): una narrazione non realistica, un modo di recitare non naturalistico, un mondo in cui è normale decidere di svoltare fuori strada con una spider e finire in mare, uscendo poi dall’auto come niente fosse.
Come ha dichiarato Quentin Tarantino, suo grande ammiratore non ricambiato, il suo percorso è stato simile a quello di Bob Dylan: entrambi grandi profeti per una generazione, che negli anni Sessanta sono stati in piena esplosione creativa prima di perdersi per strada e sistemarsi al reparto “venerati maestri”. Triste a dirsi, ma da allora Godard ha quasi sempre ignorato la presenza di un pubblico, chiuso in una ricerca intellettuale ossessiva ma quasi mai avvicinabile.
Ma le rivoluzioni giovanili di Godard, che si guardino su un reel di Instagram o per intero in una sala d’essai, sono ancora lì, e il suo modo di essere giovane lo rende anche oggi «reale e surreale, terribile e spassoso, notturno e diurno, solito e insolito, beau comme tout»: Godard le fou.

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