
Dogman – Il fio dell’omertà | Recensione del film di Matteo Garrone
Un possente e aggressivo pitbull viene servito e riverito, mentre, da dietro le sbarre elettrosaldate di una gabbietta, un cane di piccola taglia lo osserva, impaurito, tutto tremante.
È sin dalla prima scena di Dogman che entriamo in un mondo i cui rapporti di forza sono chiari e inevitabili, in cui il più forte atterrisce tutti gli altri, in cui le regole si fanno coi pugni e le testate. Matteo Garrone ha finalmente portato a compimento un’opera che aveva in mente da anni, sin da quando, nel 2006, aveva proposto la prima stesura della sceneggiatura proprio a quel Roberto Benigni che ha consegnato la Palma d’oro per il miglior attore protagonista a Marcello Fonte, nuovo beniamino del Festival de Cannes. Proprio quel Benigni, che rifiutò la sceneggiatura perché troppo cruenta, innescò un processo di maturazione dell’idea davvero felice negli esiti.
Garrone, Gaudioso e Chiti sono riusciti a scrivere una storia usando armi molto più forti della violenza – comunque molto intensa nella pellicola –, gettando lo spettatore nelle mani dell’ansia continua, dei respiri trattenuti e rilasciati al termine di scene forti, impegnative e coinvolgenti. La violenza si manifesta nella sua fisicità, certo, ma è soprattutto un senso di reiterato dolore psicologico a pervadere quell’atomo di mondo che è la periferia romana, la sottomissione imparata tutti i giorni, quell’abbassare la testa che avvicina sempre più l’uomo ai cani che accudisce.
Un alone di disperazione che sfocia nell’omertà più colpevole e patetica, figlia di un uomo privo degli strumenti necessari a farsi valere in un mondo di per sé abbandonato e in rovina, dove non esiste il bello, perché i monumenti sono le slot mangiasoldi e lo spaccio di cocaina è l’attività meglio pagata. Il prezzo dell’omertà è dunque altissimo, e Marcello, protagonista del film ma non della propria esistenza, lo paga per tutta la durata della pellicola, dimenticandosene solo nei brevi spazi vissuti con la figlia.
Quest’ultima permette a Garrone di tornare alle scene subacquee che già l’avevano esaltato ne Il racconto dei racconti (2015), e che qui funzionano come pause liriche e silenziose, momenti di fuga dalla realtà: padre e figlia si immergono con le bombole nelle torbide acque del litorale laziale, immaginando di essere alle Maldive o ai Caraibi, dovunque si trovino. Poesia e prosa si legano, facendo di Dogman l’anello di congiunzione tra Gomorra (2008) e Tale of Tales, una storia che non si può incasellare in un genere ben definito, ma che, con la direzione di un vero autore, unisce fatti realmente accaduti a un immaginario tutto nuovo.
La realtà è infatti viva e vegeta nei personaggi di questa storia, ispirati agli uomini coinvolti nel delitto del Canaro, sanguinoso fatto di cronaca nera accaduto nel 1988 a Roma e ingigantito da racconti più o meno verificati su dita e altre parti del corpo amputate, bruciate, spappolate, e su un cervello asportato e lavato con sapone per animali. Vittima del delitto fu l’ex pugile dilettante – e criminale – Giancarlo Ricci, che in Dogman possiamo riconoscere, seppur con differenze, in Simoncino, interpretato da un rude Edoardo Pesce, delinquente-tipo della Magliana, prepotente e sfruttatore. Carnefice fu il tosacani Pietro De Negri, detto “Canaro della Magliana”, pregiudicato, cocainomane e già complice del Ricci in una rapina finita male: una brutta storia di soldi e violenza che sconvolse le cronache italiane dell’epoca.
La differenza fisica tra Pesce e Fonte, sommata al punto di vista, che è sempre quello del protagonista, fa vivere allo spettatore lo stesso senso di pericolo che prova non solo Marcello, ma tutto il quartiere. Dunque un cast perfetto – anche nei personaggi secondari, in grado di interpretare sia il grottesco sia il miserabile -, illuminato dalla piccola Alida Baldari Calabria, figlia di Marcello, unico raggio di sole in un mondo di violenza. Un mondo che rivela un altro punto di forza della pellicola, ovvero quelle location che stanno diventando sempre più importanti, per presenze, nel cinema italiano contemporaneo: il litorale domizio, col suo Villaggio Coppola – frazione di Castel Volturno – vera roccaforte dell’abusivismo edilizio, ha funto da location per L’imbalsamatore (Garrone, 2002), Indivisibili (Edoardo De Angelis, 2016), per il video di Liberato Gaiola Portafortuna e sarà ancora scelto da De Angelis per il suo prossimo film.
Davvero tanti i punti di vista da cui guardare questo film, non ultimo quello produttivo, vero esempio di funding virtuoso (tre case di produzione – compresa Rai Cinema -, credito d’imposta e fondi europei, solo per dare idea di quante fonti si possano e debbano trovare per fare un bel film in Italia), ma non si può non spendere qualche parola sull’intesa perfetta tra regista e attore protagonista. A chi vede in Fonte un po’ di istanze pasoliniane, l’attore risponde: «Sono contento, ma senza togliere nulla a nessuno, io avevo davanti Matteo e basta, il suo modo di lavorare. È un allenatore che conosce i calciatori. Sul set ci ha insegnato a passarci la palla, a segnare insieme. ».
E infatti è proprio la regia a emergere con grande potenza dai proiettori che in questi giorni ci stanno mostrando un film dalle tinte a tratti fosche (bellissima la fotografia di Marco Spoletini) e pieno di umanità profonda, fatta emergere con un grande lavoro sugli attori e sulle inquadrature: i primi piani su Marcello Fonte restano impressi per parecchio tempo dopo la visione, e difficilmente sentirete gli altri spettatori conversare allegramente dopo la proiezione, perché le immagini colpiscono con forza. L’impossibilità di entrare in contatto col mondo, grande problema del protagonista, una sorta di adulto-bambino, è scritta con l’alternanza tra grida e silenzi, con le sfocature, coi primi piani di lunga durata che trasudano i pensieri del protagonista e li imprimono nell’occhio di chi guarda, in un crescendo di empatia che fa sentire partecipi e sperduti.
Torneremo presto, dunque, a parlare di Marcello Fonte, calabrese trionfatore di Cannes e uomo dalla storia particolarissima, nel frattempo vi invitiamo a riempire i cinema, perché perdere Dogman vorrebbe dire perdere il miglior Garrone, nonché uno dei film italiani più belli degli ultimi anni.
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