
Perché da 10 anni discutiamo de La grande bellezza?
Il 21 maggio 2013 La grande bellezza veniva presentato al Festival di Cannes e, in contemporanea, usciva nelle sale italiane: da allora non si sono mai placati i battibecchi sul significato e sul valore del film di Paolo Sorrentino, incentivati dalla vittoria dell’Oscar come miglior film straniero.

Sono passati 10 anni da quella prima proiezione, eppure, continuiamo a discutere de La grande bellezza, del suo presunto o carente significato, del misto di disagio e incanto che suscita in noi a fasi alterne, dei personaggi e delle scene iconiche. Parte del fascino ambivalente de La grande bellezza sta proprio nel suo essere irriducibile a un’unica definizione.

È il primo film italiano a vincere l’Oscar a 15 anni da La vita è bella, è l’opera che consacra la regia di Paolo Sorrentino (e da quel momento non potremo più confonderlo con Matteo Garrone come accade in Boris), ma è anche un ritratto feroce e impietoso di uno spaccato d’Italia (o di come ci piace raccontarla). È orgogliosamente un “film sul niente” e, insieme, un’eco felliniana che strizza l’occhio al pubblico straniero.
La grande bellezza è una creazione sfavillante e deprimente che può essere osservata da più punti di vista, senza prendersi la briga di assumere un unico significato . È la rappresentazione nitida (come solo la fotografia di Luca Bigazzi permette) di una serie di luoghi comuni che ci portiamo dietro, una cartolina che immortala Roma in modo tale da far rabbrividire persino Antonello Venditti (presente anche nel film). È un misto di premonizioni (l’arresto di Messina Denaro) e rivelazioni o supposte tali (“unico merito di Sorrentino è essere riuscito a far recitare Sabrina Ferilli come si deve” si compiacquero di sentenziare in molti all’epoca).

Ma allora cosa rimane davvero, a distanza, di 10 anni di questo film tanto acclamato a livello internazionale quando dibattuto dalla critica e dal pubblico italiani? Ecco alcuni spunti che è possibile portare alla discussione che, inevitabilmente, tutti noi ci troviamo periodicamente ad affrontare quando la conversazione tocca un tema che ha a che fare con La grande bellezza (o, peggio, con la nostra vera ossessione: il suo significato).

La storia e il suo significato (quale poi?)
Ben prima dell’uscita de La grande bellezza Sorrentino disse:
Nel mio mondo ideale i film non dovrebbero più prevedere le trame e dovrebbero semplicemente raccontare a tutto tondo i personaggi; tuttavia la trama nel film c’è, perché c’è ancora chi è appassionato di questa brutta cosa.

Dato questo presupposto non ci stupiamo se de La grande bellezza ci ricordiamo faticosamente il contenuto, la trama, la storia, il significato.
La maggior parte di noi ricorderà un film ambientato a Roma con un bravissimo Toni Servillo che interpreta un personaggio ricco e mondano dai gusti raffinati e l’eloquio tagliente che, nonostante lo sfavillare di cui si circonda, vive un’esistenza segnata dall’insoddisfazione.

Il pubblico più appassionato ricorderà che il nome di questo “re dei mondani” è, come sempre in Sorrentino, eccentrico (come il suo abbigliamento): Jep Gambardella. Rimarrà forse il vago ricordo di un legame sentimentale tra Jep e una figura femminile (Ramona) interpretata da Sabrina Ferilli e si darà per scontato che parte del fascino istrionico del protagonista derivi dall’avere a che fare con il mondo dell’arte. Effettivamente Jep è un giornalista che si occupa di cultura, ma deve la sua fama a un unico romanzo pubblicato in gioventù.

Questi gli ingredienti essenziali da inserire in una Roma immortalata nei suoi scorci più suggestivi e dominata da un’umanità cafona. Ma la storia? Ecco quella la ricordano in pochi, potremmo riassumerla sostenendo che a un certo punto compare una cosiddetta “Santa” e poi il film finisce.

Il punto, però, non è la trama che indubbiamente esiste: non è questo l’elemento per cui continuiamo a ragionare su La grande bellezza a distanza di 10 anni. Così come, probabilmente, non è indispensabile intravedere in ogni immagine un significato simbolico, anche se vorremmo tanto poter dare una spiegazione chiara a quel misto di nausea, fascino, rabbia, incanto e senso di vuoto che accompagna la visione del film.

Roma come l’abbiamo sempre vista, tra echi felliniani e gusto cafonal
Nonostante in pochissimi dispongano di un attico vista Colosseo come quello di Jep, Roma come la si vede da lì è esattamente come ce la immaginiamo. E non è un caso quindi che chi va a Roma (soprattutto se arriva da lontano) si senta consigliare: “Prima di partire guardati La dolce vita e La grande bellezza”.
L’accostamento non è casuale: i rimandi a Fellini nel cinema di Sorrentino si sprecano come lo stesso regista, dopo tempo, ha ammesso:
Per quanto io abbia sempre negato che La grande bellezza c’entri qualcosa con lui (Federico Fellini ndr.), la bugia è palese. Anche io tento umilmente di arrivare alla verità attraverso la fantasia.

Dalla celebre scena della giraffa, all’insistenza sulla componente onirica e quella grottesca – che richiamano tanto 8½ (1963) quanto Fellini Satyricon (1969) – dall’utilizzo del termine “vitellone” riferito a Jep, fino ad arrivare all’inevitabile confronto con La dolce vita (1960) richiamata anche nel titolo scelto da Sorrentino (nei progetto di Fellini, infatti, La dolce vita inizialmente si sarebbe dovuta intitolare La grande confusione).

Accanto a quest’eco raffinata e squisitamente poetica ecco trionfare il reale, nelle sue componenti più viscerali, pacchiane e cafone, sempre immortalate da una regia che si compiace dell’utilizzo di virtuosismi ed espedienti barocchi. Tutto sfavilla ne La grande bellezza, poco importa se il soggetto dell’inquadratura è il mini-dress di una cubista o il riflesso del tramonto nelle acque del Tevere. In sottofondo la colonna sonora accosta musica dance/elettronica a sonorità che evocano un’atmosfera sacrale.

Scene e frasi cult di un modo di vivere e raccontarsi: Jep Gambardella come spirito guida
Probabilmente servirebbe un articolo intero dedicato al tema, perciò, in questa sede, ci accontentiamo di un paio di citazioni.
Anzitutto l’iconica scena iniziale del compleanno di Jep festeggiato su una terrazza con danze scatenate immortalate da movimenti di macchina che ormai possiamo tranquillamente definire “alla Sorrentino”.

«Auguri Jep: auguri Roma!!!» declama l’ex-subrette Lorena (Serena Grandi) sbucando dalla torta. Durante un’altra serata il nostro protagonista si sofferma su un dettaglio e pronuncia una delle frasi che meglio racchiudono il significato de La grande bellezza:
La frase più iconica del film resta però quella che tutti abbiamo in mente, pronunciata dallo stesso Jep:
Io non volevo essere semplicemente un mondano. Volevo diventare il re dei mondani. E ci sono riuscito. Io non volevo solo partecipare alle feste. Volevo avere il potere di farle fallire.

Intuizioni, previsioni profetiche e stereotipi
Tra gli elementi che più hanno fatto discutere de La grande bellezza (oltre ai ringraziamenti di Sorrentino su cui si è a lungo ironizzato) troviamo alcuni personaggi che sono, di fatto, delle comparse nella vita di Jep, ma che immortalano uno spaccato di società ricco di significato. In ordine di apparizione incontriamo:
Giulio Moneta che oltre a evocare già dal nome Matteo Messina Denaro viene presentato come «uno dei dieci latitanti più ricercati del mondo», ma che si auto-definisce:
Un uomo laborioso. Uno che mentre Lei trascorre il tempo a fare l’artista… e a divertirsi con gli amici, fa andare avanti il Paese
Nel film Moneta viene arrestato come effettivamente accaduto pochi mesi fa al criminale che ha ispirato il personaggio.

Talia Concept (Anita Kravos), artista contemporanea che si esibisce in una performance ricca di cliché simbolici che rimandano sarcasticamente e in maniera per niente velata a Marina Abramovic. La performer viene poi messa in difficoltà dall’intervista di Jep che mette a nudo l’inconsistenza del suo “progetto artistico”.

Alfio Bracco (Massimo Popolizio) il chirurgo plastico star che si fa chiamare solo “amore o amico” e che accoglie tutti (coloro che possono permetterselo) distribuendo briciole di effimera speranza come un buon pastore.
L’enfant prodige Carmelina (Francesca Amodio) che riversa sui colori e sulla tela la propria rabbia per l’infanzia che le viene sottratta dagli adulti (primi tra tutti i genitori che la costringono a esibirsi per arricchirsi dalla vendita delle sue opere d’arte) mentre lei da grande sogna di fare la veterinaria.

Il Cardinal Bellucci (Roberto Herlitzka) che «da giovane sembra fosse il miglior esorcista d’Europa» e ora è destinato al soglio pontificio, ma per il momento alla spiritualità preferisce l’arte culinaria e la vita mondana.

“La Santa” suor Maria (Giusi Merli) che, a 103 anni, interagisce con i fenicotteri e mangia solo radici «perché le radici sono importanti», che trova scomodo l’hotel perché è abituata a dormire a terra in un giaciglio di cartone e che a Roma si concede come unica attività quella di percorrere in ginocchio la Scala Santa.

I conti Colonna di Reggio (Franco Graziosi e Sonia Gessner) nobili a noleggio che accettano, per soldi, di interpretare i loro acerrimi nemici, i conti Odescalchi, durante una cena.

Potremmo dire, in sintesi, che La grande bellezza è un’opera carente di significato, un mix incantevole e compiacente di spirito piacione, splendore, desiderio di leggerezza e superficialità, oppure affermare che è un film che ha segnato la storia del cinema italiano e internazionale.

Entrambe le affermazioni sono probabilmente vere, ma, in fondo, quel che davvero ci piace di questo film è che è un argomento di discussione e confronto potenzialmente inesauribile perché raffigura un spaccato di realtà e testimonia la bellezza di una città che non ci stancheremo mai di ammirare.
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