
Beetlejuice – Plastico del terrore formato famiglia
C’era già tutto Tim Burton in Beetlejuice: guardarlo oggi, a 25 anni di distanza e ad un passo dal suo annunciato seguito, si vede chiaramente quanto la poetica del regista di Burbank fosse limpida in questo suo secondo lungometraggio arrivato tre anni dopo Pee-wee’s Big Adventure, di cui recupera quella dimensione di demenziale assurdità formato famiglia che viene qui condita di un immaginario gotico “a portata di tutti”, marchio inconfondibile della filmografia a venire. Un immaginario che Burton aveva sperimentato e consolidato lavorando al purtroppo spesso dimenticato Classico d’Animazione Disney The Black Cauldron (da noi Taron e la pentola magica), per cui ha fatto da conceptual artist dando forma ad un’estetica al contempo da incubo eppure avvicinabile, sempre a un passo dal superare l’asticella dell’effettivamente disturbante, limitandosi a perturbare quel tanto che basta per non limitarne la visione ai più piccoli.

Così anche Beetlejuice riesce magicamente a presentarsi come un classico per famiglie – con tanto di straordinaria serie animata spin-off – nonostante sia a tutti gli effetti una nerissima commedia horror, in cui la premessa stessa che anticipa il primo atto basterebbe a impostare un racconto dal fortissimo potenziale orrorifico in piena linea con gli stilemi di genere di fine anni ’80; eppure il trucco di Tim Burton è rendere la premessa simile all’inizio di un gioco, mostrando la morte come una condizione narrativa di cui sperimentare le curiose conseguenze, con corpi che si deformano in adorabili mostruosità, recuperando quel senso di grottesca anarchia di cui è ricolmo uno dei testi chiave che hanno da sempre ispirato il suo lavoro – La Famiglia Addams, anche prima di Mercoledì – e che anestetizza il terrore al punto da renderlo semplicemente una tavolozza di colori attraverso cui raccontare. Dopotutto Burton lo sa bene: è così che funzionano le fiabe, capaci di silenziare il terrore nonostante l’orrore, poggiando su rassicuranti andamenti narrativi che fanno sentire a casa.

E poi c’è l’affresco di volti intrecciato dal cast, tutto azzeccato, già comprendente alcuni dei protagonisti della filmografia di Burton a venire, capaci di materializzare quell’immagine di “gotico pop” con cui il regista ha tinto i suoi lavori. Winona Ryder diciassettenne è semplicemente perfetta, con occhi grandi e un fascino ineffabilmente dark che l’ha poi resa icona dell’audiovisivo perturbante – Dracula di Bram Stoker, Alien³, Ragazze interrotte, fino ad incarnare un intero immaginario in Stranger Things – e in grado di contrastare con l’innocenza di una recitazione sottile e misurata l’esplosività dell’altro protagonista. Un Michael Keaton esagerato, roboante, magnetico e costantemente eccessivo, corpo plastico di un personaggio che è più di una maschera, quasi sensazione sinestetica, capace di fare del disgusto e del disturbo punti focali intorno a cui ruota una narrazione che del Beetlejuice personaggio non avrebbe in realtà bisogno, ma che sembra nutrirsi della sua carica caratteriale.

Il segreto di Beetlejuice è rendere le mura della casa in cui si svolge il racconto una ride da parco a tema, di quelle in cui si cammina lungo corridoi dove il brivido è parte di un innocuo divertimento. Non è un caso che nel film siano così importanti diorami e miniature: Tim Burton imbastisce un plastico narrativo, una casa di bambole inquietante ma sempre a misura di giocattolo dove il personaggio principale è talmente disturbante da pervadere con il proprio portato estetico tutto quello che lo circonda: pensiamo ai vermoni a righe, doppi di plastilina del corpo di Keaton, o al tessuto sonoro a firma di Danny Elfman che satura l’aria di tutto ciò che l’immagine da sola non può restituire. Un gioco di proporzioni, quindi, che raggiunge il suo apice in quella sequenza finale sulle note del compianto Harry Belafonte, dove Beetlejuice arriva a pervadere ogni singola particella del profilmico senza nemmeno dover comparire, attraverso gli effetti che la sua presenza narrativa ha avuto sui personaggi.
Ora la promessa di un sequel per il grande schermo – dopo la serie animata, i videogiochi e persino un musical – arriva in un momento in cui l’eredità di Beetlejuice ha seminato ben oltre la filmografia di Tim Burton, con un panorama mediale contemporaneo in cui l’horror è ormai disponibile per ogni tipo di palato e dove il grottesco è sempre più anestetizzato da facili patinature digitali. Eppure la nostalgia sembra dettare anche qui legge, e la nostra curiosità resta tale che pronunceremo ancora senza troppe remore, per tre volte, «Beetlejuice, Beetlejuice, Beetlejuice!».
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