
Jackie Brown, o l’anti-Tarantino
Jackie Brown: chi era costei? La domanda è piuttosto giustificata: in fondo parliamo della protagonista di un film (omonimo) del 1997, che al botteghino guadagnò bene ma non benissimo, con protagonista un’attrice poco nota e con una trama da noir urbano non particolarmente indimenticabile. Jackie Brown non è un film che si cita abitualmente alle macchinette del caffè, eppure il suo autore, Quentin Tarantino, è uno dei registi più citati e amati di sempre, i cui film hanno ispirato costumi di Halloween, graffiti di Banksy, titoli di trasmissioni televisive, successi musicali da classifica e infiniti spunti per aspiranti attori, registi e sceneggiatori.
Se però la particolarità di Tarantino è quella di essere arrivato ad un pubblico enorme – molto più ampio di quello tipico del cinema d’autore – facendo sì che pressoché chiunque ormai associ le note di You Never Can Tell al twist di Pulp Fiction, o i completi neri a Le iene, o una tuta gialla a Kill Bill, non si può dire lo stesso di Jackie Brown, sua terza prova registica, che in questo rimane un’anomalia nella sua filmografia.
Jackie Brown è deliberatamente un film anti-tarantiniano: atteso al varco dopo il successo stratosferico di Pulp Fiction nel 1994, l’allora giovane turco del cinema indipendente spiazzò tutti con una serie di scelte che rinunciavano a molti dei topoi che gli avevano garantito il successo.

Là dove Pulp Fiction era colmo di personaggi fumettistici e dialoghi esilaranti, Jackie Brown è lento e misurato, abitato da persone reali che non vestono con giacche nere e non cercano valigette dai contenuti mistici. Là dove Le iene era un concentrato di violenza e sangue, Jackie Brown si limita a un paio di morti che però non hanno nessuna delle esagerazioni postmoderniste a base di torture accompagnate da canzoni pop. Là dove Tarantino ha sempre “written and directed” i suoi film, qui adatta un romanzo di Elmore Leonard. Là dove lo stile tarantiniano implicava un sovrappiù di stile a sfavore della genuinità, facendo sempre prevalere uno sguardo ironico, distaccato e ghignante, in Jackie Brown – difficile da credere – Quentin Tarantino dimostra di avere un cuore.
E in fondo lo ha detto lui stesso: «Questa è una storia d’amore. Se gratti via il resto, la perla dentro il film è la relazione tra Max e Jackie». Max e Jackie come Max Cherry e Jackie Brown, ovvero Robert Forster e Pam Grier: lui un ex bello noto principalmente per una serie tv di trent’anni prima, ormai talmente fuori dal giro che quando Tarantino gli propose il ruolo non aveva nemmeno un agente (e poi recuperato anche in Breaking Bad e Twin Peaks – Il ritorno); lei la ex diva quasi dimenticata del genere blaxploitation, ovvero i film d’azione colorati e violenti che si rivolgevano ad un pubblico afroamericano negli anni ’70. Per loro Tarantino modificò i protagonisti di un romanzo del re del noir Elmore Leonard, Punch al rum (1992), e per la prima volta adattò un testo non suo, omaggiando Leonard come un padre putativo per avergli ispirato quei dialoghi poi riconoscibilissimi come tarantiniani.

La storia narrata nel romanzo, e poi adattata nel film, è piuttosto semplice: una hostess quarantenne, single e squattrinata (la Jackie del titolo), arrotonda lo stipendio trasportando denaro oltreconfine per un pericoloso trafficante d’armi losangelino, Ordell Robbie (un grande Samuel L. Jackson), ma quando la polizia la costringe a fare il doppio gioco, troverà il modo di evitare guai grazie all’aiuto di un garante di cauzioni, Max.
A fare da contorno, i complici di Ordell, ovvero una Bridget Fonda costantemente in bikini (protagonista di quella che è forse l’unica vera scena tarantiniana del film, e anche la più comica), e un esilarante Robert De Niro in un ruolo totalmente anomalo rispetto ai suoi soliti uomini duri, questa volta con un look sfatto, dei baffi ridicoli e una notevole passione per il fumo via bong.
Nessuna sovversione della cronologia come in Pulp Fiction, nessuna riscrittura della Storia come in Bastardi senza gloria, nessuna siringa nel petto né scontri a base di katana: Jackie Brown è Tarantino con il freno a mano tirato. Anche in quanto a tocchi di stile si concede molto poco: il font dei titoli che riprende quello di Foxy Brown (con la Grier protagonista nel 1974), la carrellata lungo un tapis roulant dell’aeroporto come ne Il laureato, uno split screen a omaggiare il suo idolo De Palma, una scena ripetuta tre volte da tre punti di vista diversi come in Rashomon di Kurosawa.
Per il resto, a vederlo sembra un onesto film noir anni ‘90, non un classico immortale: inizia e finisce senza grandi drammi o colpi di scena, e nessun attore interpreta un personaggio davvero memorabile. Si parla molto, si dicono molte parolacce, abbondano le dissolvenze che rallentano il ritmo dell’azione e si sente una grande colonna sonora soul, ma non c’è quasi niente di “memabile”, niente di iscrivibile nella cultura pop dei decenni a venire.
Come ha detto lo stesso Tarantino, «Con Jackie Brown non ho mai avuto intenzione di sorpassare Pulp Fiction, al contrario volevo mirare più in basso, volevo andare più a fondo». Niente da dire: ci è riuscito. Per chi non ama il Tarantino senza freni che inonda lo schermo di ettolitri di sangue, ride di qualsiasi dramma e non conosce il termine “moderazione”, Jackie Brown è l’occasione per scoprirne un lato diverso, romantico, adulto e poco vistoso, una sorta di storia alternativa della sua carriera, nell’ipotesi in cui non fosse tornato già pochi anni dopo con Kill Bill a spingere sull’acceleratore.
E allora, in Jackie Brown ci si potrà godere un magnifico lavoro di attori, apprezzare il labbro che si inarca a destra di Pam Grier e lo sguardo imbambolato del burbero Robert Forster quando la vede per la prima volta, e ritrovarsi addirittura a commuoversi – incredibile ma vero – davanti a un bacio diretto da Quentin Tarantino.

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