
Babylon – Uno spettacolo mai visto
«ELEFANTI BIANCHI». Con queste parole si apre, dopo una mezza dozzina di lisergiche foto in bianco e nero e una poesia di Don Blanding, il travolgente libro Hollywood Babilonia di Kenneth Anger del 1959. Elefanti bianchi con cui incorniciare il festino di Berlshazzar contenuto in Intolerance di D.W. Griffith, rimando immediato attraverso cui Damien Chazelle decide di aprire il suo Babylon, che al romanzo di Anger si ispira non solo nei toni, ma anche negli intenti: attraverso i corpi attoriali di Margot Robbie, Brad Pitt e Diego Calva Chazelle realizza un mastodontico controcanto alle terrificanti pagine del romanzo-inchiesta dandogli non solo immagine (il libro è fin troppo ricco di fotografie), ma un suono e un ritmo esplosivi, perfettamente in linea con il respiro di un film che promette di farsi estremamente divisivo.

Dove il libro di Anger si apre raccontando un festino mitico, immaginario, cinematografico, il film di Chazelle ribalta la prospettiva: il festino che deborda dal profilmico qui è reale, carnale, eppure come quello di Griffith anche il baccanale che si consuma nella villa del produttore Don Wallach è fatto di corpi, sudore e sforzo, come una coreografia a un tempo spontanea e misuratissima persino nei suoi eccessi. E sì, anche qui c’è un elefante. La volontà di Chazelle è chiara: il suo Babylon allo stesso tempo è e non è la Hollywood Babilonia letteraria: non lo è perché il suo film non è nozionistico o aneddotico, perché le divinità effettive del dannato Olimpo del Novecento non appaiono mai davvero, e lo è perché le storie rappresentate sono attinte a piene mani dagli scandalosi – e spesso francamente deprimenti – eventi che avevano ammantato la Mecca del peccato statunitense che si preparava a due rivoluzioni incontrovertibili: il sonoro e il Codice Hays.

Risfogliando il libro di Anger dopo la visione – magari tenendo vicino anche La Formula Perfetta di David Thomson – il film di Chazelle si dispiega tra le storie più sporche e crudeli di Hollywood. Impossibile non riconoscere nei primissimi minuti di film l’orribile (presunto?) stupro di Virginia Rappe da parte di Roscoe Arbuckle, come non è difficile ricavare in controluce le figure di Clara Bow e di Jack Gilbert (io azzardo, di Errol Flynn) nei personaggi di Margot Robbie e Brad Pitt, alle volte attraverso episodi adattati da Chazelle con una comica e crudele fedeltà totale (provare per credere: rileggete pagina 219 dell’edizione italiana), eppure tutto ciò che accade in Babylon non è cronaca, bensì verosimile e infiammabile mitologia: se accettiamo le stime che vedono il 70% dei film girati prima del sonoro andati totalmente in fumo, allora chissà quante Nellie LaRoy (una Margot Robbie anacronistica e feroce) si sono perdute nei roghi di celluloidi imbibite di rosso, magari dopo essere passate di fronte a milioni di occhi adoranti.

Ma tra un fotogramma e l’altro dei mitici (e ancora silenziosi) sogni di celluloide che riempivano le sale degli Studios di inizio ‘900 – meraviglie del mondo moderno dalla portata esorbitante – si consumavano (letteralmente) vite minuscole che in un attimo potevano diventare leggendarie, lontane dalle convenzioni di una cultura – quella statunitense, certo, ma fino al 1927 anche quella globale – sorpassata solo dalle necessità della macchina industriale del cinema. Una scena poteva letteralmente costare vite e venir scartata sul tavolo di montaggio, oppure far decollare l’esistenza di chi fino al giorno prima semplicemente non esisteva. Nel film di Chazelle assistiamo al correlativo sonoro e rumoroso di tutto ciò: il ritmo onnipresente del Jazz sfrenato si macchia del baccano produttivo di sequenze sporche (anche di sangue) girate sul filo dell’inesorabile orologio della luce naturale, ritmando una sceneggiatura dall’andamento perfetto, misuratissimo – e perché no, alle volte matematico e prevedibile, come Hollywood comanda – capace di sfaldarsi nel momento esatto in cui si sfalda la vita dei suoi protagonisti.

Nulla del tessuto audiovisivo di Babylon è lasciato al caso: il film di Chazelle è ricchissimo di rime interne dal devastante effetto significante – provate a trattenere un brivido quando ritrovate la canzone cantata dalla Lady Fay Zhu di Li Jun Li nei meandri dell’Inferno di LA – come se l’ipotetica celluloide che lo raccoglie, nell’arrotolarsi su sé stessa, lasciasse permeare gocce di contenuto tra i pori dei propri fotogrammi. Così immagini del film, nella loro presenza ricorsiva, si fanno pilastri che sorreggono l’andamento diversamente denso del mastodontico portato narrativo: ancorarsi alla roboante e chirurgica tromba di Sidney Palmer (il personaggio di Jovan Adepo, il più interessante di tutto il racconto) permette di non perdersi nei meandri di una narrazione fatta per essere eccessiva, esorbitante, inaudita e a tratti rivoltante. La Hollywood di Chazelle è il sincero ritratto di una comunità sull’orlo della crisi, incapace di farsi incastrare da limiti a cui non sarà mai davvero preparata.

Il mai nominato (innominabile?) Codice Hays, che nel libro di Anger gioca il ruolo centrale di inevitabile antagonista, in Babylon è una fantasmatica minaccia infida e ipocrita, che si specchia e si concretizza nell’ordine e nel rigore sui set dettati dal sonoro: finché i film erano muti, tutto era rappresentabile, nulla era davvero vietato, dentro e fuori i fotogrammi; la voce mette a nudo, rende consapevoli di un inedito pudore e persino il sentimento diventa vergognoso, quando non ridicolo. Resta incalcolabile il numero di star cadute in disgrazia per la loro pessima voce e il film di Chazelle ne rende conto allentando il ritmo del racconto, smagliando la tenuta e la credibilità dei suoi personaggi, ormai inutilizzabili persino in questo mancante meta-racconto che fa del cliché il punto di fuga del reale attraverso il necessariamente immaginario, il tutto con un’immancabile crudeltà.

Chazelle, scegliendo di muovere il suo Babylon attraverso l’impossibile (eppure, leggendo attentamente Anger, non improbabile) vicenda di Manny Torres – un Diego Calva decisamente all’altezza tanto di Margot Robbie quanto di Brad Pitt – si libera di qualsiasi gabbia del rappresentabile, scavalcando agilmente i facili buonismi del color-blind casting o gli effetti di ucronica rottura dei comodi What if..?, e restituisce col suo film un punto di vista globalizzante, omnicomprensivo, ancorato a terra, rendendo lo spettatore un elemento fisicamente centrale del rappresentato, chiamato direttamente in causa dagli eventi e testimone di dimensioni sensoriali che il cinema come mezzo tecnico non poteva, non voleva e non doveva veicolare.

Qui si spiega e si consuma il discutibilissimo finale del film, perfettamente sincronizzato con la chiusura del libro di Anger (che chiude, prima dei suoi “titoli di coda” letterari, con le parole «FINE DELLA BOBINA»), ecumenico, rassegnato, disilluso e ingenuo allo stesso tempo. Mi si conceda: necessario nel suo essere stucchevole, quasi didascalico e goffamente elaborato nel suo esser misurato. Eppure non poteva esserci modo migliore di raccontare la pulsione cannibale del cinema, che del proprio corpo non butta via nulla, popolato da coeterni spettri (in tutti i sensi possibili della parola), nato come dispositivo scientifico della nostalgia, portatore di mummie patologiche e di fotogenici pugni in faccia. In pratica, la culla del peccato, 24 fotogrammi al secondo.
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[…] conseguenze la sua bellezza da bambola, con tutti i contrasti che questa ha dato nel tempo tra Chazelle, Tarantino, Scorsese ed Harley Quinn; ma forse più di lei ad illuminare il gioco divisticamente […]