
Spider-Man: Across the Spider-Verse | Un film
Nel 2002 Shrek inaugurò la categoria “Miglior film d’animazione” agli Oscar, battendo giustamente Jimmy Neutron e inspiegabilmente Monsters & Co. Si potrebbe pensare che il 2002 sia l’anno in cui l’animazione cominciò ad avere i dovuti riconoscimenti all’Academy, ma prima di farlo vi invitiamo caldamente a rileggere la nostra intervista al mitico Marino Guarnieri sullo stato dell’arte dell’animazione. Perché è bello che all’animazione siano riconosciuti premi, celebrazioni, acclamazioni di critica e pubblico. Oppure no? Di fatto non abbiamo ancora una risposta all’annosa questione se l’animazione sia un linguaggio, un genere o entrambe le cose e una risposta certa scontenterebbe inevitabilmente appartenenti a entrambe le parti. Dopotutto è giusto mettere sullo stesso piano un libro battuto a macchina e uno scritto a mano? Dovrebbe esistere una categoria per miglior libro manoscritto e miglior libro scritto a computer? A osservare la storia dell’animazione viene da pensare che il motivo della nascita di una categoria apposita per l’animazione negli Oscar non risieda tanto nella qualità dei film in sé quanto nel “pericolo” che questi sono gradualmente diventati per il cinema, diciamo così, tradizionale. Per dirlo con le parole di Charlie Chaplin «come possiamo sperare di competere? Questi ragazzi non hanno bisogno di fermarsi per prendere fiato». Insomma, nell’animazione si possono fare molte più follie di quante non le permetta un cinema con attori e riprese. Una preoccupazione che ricorda molto da vicino i recenti dibattiti sul ruolo dell’intelligenza artificiale nella scrittura e che forse negli anni ’40 avevano anche un loro senso.

Siamo negli anni ’20 del 2000. Il cinema è invecchiato bene, mentre l’animazione non è invecchiata affatto, almeno nel suo complesso. Non solo l’animazione tradizionale (volgarmente parlando, “i cartoni animati”) se la passa bene al cinema e fuori, ma anche su un’animazione non convenzionalmente riconosciuta come tale si appoggia un cinema tradizionale molto più di quanto non vogliamo ammettere. Pensiamoci quando saremo in sala per The Flash e vedremo Micheal Keaton svolazzare meglio di quanto non gli riuscisse nell’89. Se pensate che quella sia solo CGI vi sbagliate di grosso. È animazione allo stato puro, anzi allo stato dell’arte. Proprio quell’animazione che spaventa Hollywood – oltre a sedurla – al punto da darle una categoria di premi tutta sua, così che certi (capo)lavori non rischino di vincere premi che spettano ai volti noti dello star system. Certo, si potrebbe replicare che nulla vieta a un eventuale Toy Story 5 di vincere il premio come miglior film, ma intanto la cosa più vicina che ci sia stata a un’eventualità del genere è stata la nomination de La Bella e La Bestia a miglior film nel 1992 (seguita negli anni successivi da Toy Story 3 e Up), fatto che dobbiamo credere abbia concorso a quel fatidico 2002. Il cinema dei blockbuster insomma si serve dell’animazione per continuare a rimanere giovane, mentre l’animazione vince solo per le sue proprietà di linguaggio. È il 2023 e questa lunga premessa ci serva per commentare Spider-Man: Across the Spider-Verse.

Questa volta alla regia troviamo tre nomi relativamente nuovi: Joaquim Dos Santos (animatore portoghese con all’attivo molti film animati della DC Direct-to-Video), Justin K. Thompson (cresciuto nell’alveo di Lord e Miller con Piovono Polpette) e Kemp Powers (sceneggiatore di una cosuccia chiamata Soul). Certo, alla produzione troviamo i sempre irreprensibili Phil Lord e Christopher Miller (ormai i nuovi John Lassetter e Pete Docter) che lasciano la loro firma anche sulla sceneggiatura. Ma se nel primo capitolo il duo Lord/Miller si “limitava” a sfruttare l’arte mettendola al servizio della storia (si veda The Lego Movie), qui si cede volentieri il timone a chi fa arte e la storia è quasi uno strumento al servizio della resa su schermo. Across the Spider-Verse è prima di tutto un’orgia visiva, una vera e propria ricerca dell’appagamento sensoriale della vista e nel suo essere sublime compie anche la missione che al sublime è assegnata: educare. Non sappiamo se Dostoevskij avesse ragione quando diceva che la bellezza salverà il mondo, ma è certo che Spider-Man salva il mondo con la bellezza.

Educare – dal latino ex duco, portare fuori – e Miles nel pieno della sua adolescenza viene “portato fuori” dal suo quartiere per scoprire che ci sono altri mondi oltre a Brooklyn. È un’educazione completa la sua, dove non mancano amici, colleghi, maestri, partner, nuove conoscenze e nuovi nemici ma soprattutto quell’età adulta severa e previdente così ben incarnata da un Miguel O’Hara duro, stanco e arrabbiato che ironicamente viene da un futuro che Miles anagraficamente non vedrà che da anziano. La trama tuttavia, per quanto splendida, passa comunque in secondo piano rispetto a una resa artistica semplicemente commovente. Dimenticatevi il realismo fisico della Pixar, i personaggi gommosi della Dreamworks o le caricature in 3D di una Sony Animation del passato. Non serve essere realistici per essere credibili. Qui la parola spetta alla vera protagonista di questo film, Spider-Gwen (pardon Spider-Woman). Gwen è colore e forma, suono e movimento e anche tutte queste cose messe assieme. E le sue parti, senza nulla togliere alla prestazione vocale di Hailee Steinfeld, sono spettacolari anche solo da vedere.

A visione conclusa mi sale una tremenda paura. E se questo film vincesse, come il precedente della saga, l’Oscar come miglior film d’animazione? «Bravo cartone animato!» mi sembra di sentire «nel tuo piccolo sei decisamente il migliore. Puoi stare al tavolo dei grandi per questa sera!» Non c’è niente di piccolo in Across the Spider-Verse. Il film straborda, esonda, esplode prima negli occhi, poi nella mente. Non ho paura che i fan di Spider-Man, ma in generale anche i trentenni e i ventenni, sappiano riconoscere il valore di questo film al di là del suo linguaggio. Ho paura per tutti gli altri. Questo film sembra essere molto più che una messa in scena di contenuti. Si avverte chiaramente durante la visione un urlo vitale che proviene da chi fa l’animazione e si riappropria degli spazi suoi. Quasi a dire «noi animatori facciamo film, non film animati!» e ciò è vero, l’abbiamo visto, a più livelli. Ci sarebbe tanto, troppo da dire su Spider-Man: Across the Spider-Verse e sarà un piacere leggere nei mesi a seguire tutto ciò che i fan e la critica avranno da dire. Una cosa però va tenuto bene a mente per chiunque voglia parlarne. Parlatene come un film. Non un film d’animazione, ma un film in tutto e per tutto. Senza per questo ignorare le proprietà di linguaggio dell’animazione, né mettendo sullo stesso piano il lavoro di un attore davanti alla macchina da presa e quello di un doppiatore o il lavoro di uno scenografo e di un disegnatore (siamo sicuri di sapere quale sia il più impegnativo?). Ma parlatene, per favore, come di un film con una dignità che va ben oltre il suo essere d’animazione.
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