
Il Gattopardo di Luchino Visconti – La politica del ballo
Del Gattopardo, nella conversazione mediana restano impressi nella memoria due riferimenti. Il primo è la frase di Tancredi, pronunciata in una delle «sue crisi di serietà che lo rendevano impenetrabile e caro», con il noto adagio per cui se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Il contesto è quello di una transizione epocale, che nell’immaginarsi l’avvento della repubblica preconizza il declino di un assetto di potere, quello siciliano, basato sul notabilato. C’è insomma, per alcuni versi, lo stesso decadentismo dei romanzieri e novellisti russi: lo Zakhar di Oblomov ma anche il vecchio Firs di Čechov, la cui fiacchezza esistenziale, venata di malinconia e repulsione, incarna l’esautoramento di una classe e la progressiva perdita della sua funzione storica.
Il secondo riferimento, a sessant’anni dall’adattamento cinematografico, è appunto la nota scena del ballo, magistralmente architettata e diretta da Luchino Visconti. Nel libro, Tomasi di Lampedusa scrive spesso del salone come ipostasi metaforica di una di piazza collettiva, in cui fanfaronate e sanguinarietà si fondono: è lì che il Principe dimentica le proprie ubbie di sempre e i capricci carnali di ieri. Dentro il salone venato d’oro, il valzer rappresenta una «stilizzazione dell’incessante passaggio dei venti che arpeggiano il proprio lutto sulle superfici assetate». La scena del ballo non è solo esteticamente e cinematograficamente ineccepibile: è il momento più politico di tutto il film e una fedele riproduzione della vocazione all’immobilismo della celebre fase.

Il ballo è l’autocelebrazione di uno status di ozio, il riflesso di una classe disimpegnata, è ornamento decadente di un ceto svuotato del proprio telos. Il salone da ballo è una stanza chiusa, l’antitesi al momento democraticamente condiviso della piazza: nel salone non c’è transito o passaggio. Invece Paul Virilio, nel suo saggio dromologico sul ruolo della velocità in politica, scrive che non c’è rivoluzione senza transizione, senza circolazione. Il salone da ballo ha molte vie di fuga ma l’accesso è limitato; le coppie si formano per convenzione, roteano e si sciolgono, non c’è creazione di un’alleanza nuova ma reiterazione di maniera. Durante il ballo tutto cambia perché le figure coreografiche si fondono e si legano in uno sciame danzante collettivo, e poi tutto si risolve nel nulla di fatto della separazione (di casato, e poi individuale): nonostante l’apparente fervore del momento, la natura stessa del quadrilatero a cui si accede per invito ne depotenzia qualsiasi energia catartica. Il ballo ottocentesco è, per intenderci, più simile alle grandi parate totalitarie, o alle feste ginniche sovietiche: è la dittatura del movimento disciplinato, architettato, il cui perfetto rigore risulta nell’armonia delle scelte cinetiche di Visconti.
Niente di paragonabile all’andamento carnescialesco dei riti sessantottini, quando il ballo viene portato fuori dalla sfera privata e pubblicizzato come rito di inversione necessario. Riprendendo gli schemi di Charles Taylor in L’età secolare, possiamo descrivere il carnevale – quindi un rito teatrale, di fatto – come il rovesciamento della struttura, cioè dei codici di comportamento di una società. Ma nel ballo gattopardesco l’unica e impercettibile sospensione di una struttura normativa ferrea sta nel contatto delle mani che si sfiorano: per il resto, il ballo è un’impalpabile antistruttura ma chiusa nella dimensione familistica. Invece, i sessantottini provano a evitare la riduzione dell’antistruttura trasgressiva alla sfera privata, e la riportano dentro lo spazio pubblico: così le occupazioni, così i festival, i cortei e l’esplosione del teatro diffuso, della danza integrata. Al contrario, dopo l’esaurimento di questa spinta creativa eversiva, di questo gioco dissidente perché allargato e partecipato, a partire dai Dancing Days del 1978-79 si assiste al ritiro narcisistico dentro la dimensione chiusa e selettiva delle Dance Halls, in cui il ballo di coppia disvela non il dialogo, bensì lo scontro tra pulsioni egotiche.

Eppure, eppure, il momento del ballo è quello più raffinatamente politico di tutto il film, perché Luchino Visconti sembra cogliere e amplificare la centralità del desiderio nel processo storico. Desiderare come costruzione di un concatenamento, come progettazione di un insieme che deve venire: quindi una rivoluzione. Che cosa credete che sia, in fin dei conti, la politica? Attenzione, la politica, non la burocrazia, non la razionalità amministrativa, ma la politica che è sì parenetica ma anche esornativa; è un’arena in cui transitano anche quelle che Spinoza chiamava le “passioni d’incertezza”, e cioè la paura e la speranza. E nella sala da ballo, spazio in apparenza a-politico ma che appunto fortifica l’ethos di classe, le ragioni del cuore si affiancano a quelle delle alleanze, così come nello spazio pubblico le argomentazioni transitano nel rivestimento fluido delle credenze e delle emozioni.

Ben oltre il suo contesto di riferimento, la danza resta un atto politico radicale perché celebra la vitalità irriducibile e incontrastata della giovinezza, poderosamente orientata verso il futuro, e quindi verso un altro tempo storico. E la politica non può ignorare le istanze sociali dei corpi in movimento. Così come per Anna Karenina, che con la schiena nuda e una passione esorbitante crea uno smottamento nei costumi, anche Angelica si fa latrice di una fiamma volitiva, talmente incandescente da innescare nel Principe la nostalgia.
Ecco, dal pathos di un ballo troppo vigoroso sgorga il pensiero di dolore rivolto a tutte le separazioni e le ferite del passato. E Visconti squarcia, nello sfarzo barocco, il pensiero dell’epilogo: la fine della Sicilia, e di una politica, per come le ha conosciute il Principe. Il palco italiano è pronto per una nuova danza.
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