
“Bellissima” di Luchino Visconti – Il sogno di elevarsi
Il 28 dicembre 1951 al Cinema Manzoni di Milano aveva luogo la prima mondiale del terzo lungometraggio diretto da Luchino Visconti: Bellissima. L’accoglienza fu tiepida, proprio come lo furono gli incassi. Il film arrivava tre anni dopo La terra trema che, sin dalla sua anteprima alla Mostra D’Arte Cinematografica di Venezia aveva riscosso molte critiche, soprattutto sollevate dai borghesi benpensanti che si erano trovati spiazzati dalla rappresentazione tanto brutale – eppure vera e ricca di poesia – della società popolare siciliana. Visconti, per quanto fondatore e apripista del neorealismo cinematografico, si era affermato sulla scena di un’Italia in ricostruzione – anche per quanto riguardava le arti – come una figura controversa, capace di generare scandalo e come sarebbe accaduto almeno fino all’uscita di Rocco e i suoi fratelli, di tirarsi addosso consistenti interventi della censura. Bellissima, in cui per la prima volta nella carriera del regista si accenna ad un superamento del neorealismo per affacciarsi alla rappresentazione del cambiamento, è il racconto di un passaggio, quello verso il futuro, verso il benessere e la stabilità tanto agognata dagli italiani che si stanno risollevando dalla profonda lacerazione lasciata dalla guerra.
Un concerto viene interrotto, alla radio passa un annuncio importante: la Stella Film ha bandito un concorso per selezionare una bambina tra i sette e i dieci anni che possa interpretare un ruolo nel nuovo film di Alessandro Blasetti. Cinecittà viene, dunque, invasa da madri urlanti e desiderose di successo che, quasi come pacchi, si trascinano appresso le figliolette inermi. Tra queste vi è anche Maddalena Cecconi (Anna Magnani) con la piccola Maria (Tina Apicella), di soli cinque anni. Superata la prima selezione, Maddalena, andando contro la volontà del marito Spartaco (Gastone Renzelli), ma sollecitata dai continui suggerimenti di Alberto Annovazzi (Walter Chiari), che a Cinecittà sta cercando di farsi strada, metterà a fondo tutti i risparmi per inseguire il sogno del successo.

Il cinema dà vita ai sogni, è una definizione con cui la settima arte è stata identificata fin dalle sue origini. Mostra la vita e a volte la rende migliore. Il cinema è una speranza di risarcimento per tutte le madri che si accalcano alle porte degli studi di Cinecittà, è la promessa di riscatto dopo tanti sacrifici. Maddalena, che in nulla si differenzia da tutte le invasate che la circondano, sogna un cambiamento simile a quello che vede su quel grande schermo popolato da Montgomery Clift e Burt Lancaster – che a suo dire sono tanto simpatici –, crede fermamente nel talento della figlia a cui fa prendere lezioni di danza e di recitazione: il futuro di Maria, prossima stellina del firmamento cinematografico, diventa l’argomento che fa la differenza con le vicine e le conoscenti, la prova lampante di una superiorità che la donna ci tiene a conquistare. L’intraprendenza di Maddalena è pari alla sua ingenuità: i suoi desideri irrefrenabili la accecano a tal punto da accorgersi troppo tardi degli inganni a cui a sua buona fede è stata sottoposta. Eppure li accetta, come ennesimo compromesso di una vita ingrata che vuole lasciarsi alle spalle. Annovazzi con le sue cinquantamila lire si è comprato la Lambretta, ma in cambio farà in modo che Blasetti tra tutte scelga Maria.
La contrapposizione tra uno spirito forte e irrequieto, come quello di Maddalena ed uno quieto ed infingardo, come quello di Annovazzi, racconta la società, due diverse filosofie con cui raggiungere il benessere tanto agognato: entrambe si riveleranno fallimentari, con la differenza che la donna riacquisterà la sua quotidianità, fondata sul principio dell’unità familiare, mentre l’uomo, a passo strascicato, si avvierà probabilmente verso il già paventato licenziamento. Il film, in fondo, si regge sull’inseguimento di queste due personalità estremamente moderne – come Visconti le voleva, tanto che con Francesco Rosi e Suso Cecchi D’Amico lavorò a numerose stesure della sceneggiatura che veniva tratta da un soggetto di Zavattini –, perfette incarnazioni della frenesia che porterà fino al boom. Ma quando rallenta la corsa? Nel momento esatto in cui il sogno si infrange: quando Maddalena con stretta al collo Maria assiste di nascosto alla proiezione del provino della bambina. Il regista e il suo staff sghignazzano davanti al pianto della piccola, la apostrofano e la sbeffeggiano. La scena si alterna alla camera fissa, sempre più vicina, sul volto delle due figure femminili. L’espressione di Maddalena muta, si fa seria, quasi truce: il cinema, il suo rifugio, le sta mostrando la verità, oltre che la meschinità e la rudezza di chi gli schermi li fa risplendere. Ora che la patina lucente è svanita, non ci sono più possibili equivoci e Maddalena, lasciando gli studi, non può che sedersi su una panchina e dar sfogo a tutto il suo dolore. Un “aiuto” strozzato e disperato le esce spontaneo, si accresce la consapevolezza che solo lei stessa potrà salvare la sua famiglia e la sua reputazione.

Bellissima, che vanta una delle migliori prove di Anna Magnani – vette eguali le ha sfiorate solo diretta da Pasolini – è un’opera di passaggio, ponte tra il passato e il futuro di un paese, ma anche della carriera di un esteta che sa dare eleganza e dignità a qualunque storia metta in scena. Del neorealismo restano i volti, la naturalezza che profuma di strada e di vita, resta quella protagonista già diva indiscussa a cui Visconti – che già l’avrebbe voluta nel 1943 in Ossessione – lascia carta bianca perché dalla sua empatia, dal suo talento e dalla sua sensibilità germogli la verità di una storia che sembra, a quanto detto da Blasetti, essere stata ispirata da una vicenda vissuta in prima persona dal regista. Dello sguardo protratto verso il futuro invece appare nitido il contorno di un’evoluzione, di una modernità rampante che affascina, intriga, ma che lascia anche scottati. Oggi di Bellissima ci resta la visionaria consapevolezza di un maestro che ci aveva visto lungo e che, senza alcun bisogno di sforzare la fantasia, aveva dipinto con precisione le derive verso cui si sarebbe andati, intrepidi e sfrontati, a caccia dell’immagine e del successo.
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Analisi eccelsa della sensibilissima Benedetta Pallavidino di un’opera assolutamente senza tempo.
Una denuncia delle miserie e delle meschinità umane, quella che emerge, filtrata e sublimata dall’arte viscontiana, da Bellissima. L’amore materno, trasmesso in maniera viscerale e prepotente, come soltanto Anna Magnani avrebbe potuto fare, trionfa per sempre sulla vanagloria degli empi. E tale trionfo sofferto, raccontato da Visconti, sembra quasi profetico: trapela come un “fine ultimo” e invincibile.
Complimenti a Benedetta, non solo per la sua sensibilità singolarissima, ma anche per le sue capacità analitiche ogniqualvolta si immerge nelle opere d’arte.
Stefano Giacopino
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