
Sfacciatamente novecenteschi – Luchino Visconti secondo Giovanni Testori
I tavoli di scrittura dei maggiori capolavori del cinema italiano della golden age, dal 1954 de La Strada al 1975 di Amarcord e Professione: Reporter, mai erano solitari, spesso erano affollatissimi, e piuttosto di frequente coinvolgevano scrittori e poeti di prima razza: mettendo da parte il caso di Pier Paolo Pasolini, nei titoli di testa e di coda dei film italiani degli anni cinquanta, sessanta e settanta non era raro leggere nomi del calibro di Tonino Guerra, Ennio Flaiano, Alberto Moravia, Ottiero Ottieri, Vitaliano Brancati. Tutti questi letterati avevano iniziato a scrivere in altri ambiti e che vennero coinvolti ora occasionalmente (Moravia) ora frequentemente (Guerra) ora quasi esclusivamente (Flaiano) dal boom produttivo e qualitativo che attraversò il nostro cinema grossomodo negli stessi anni del boom economico. Un’assoluta meteora, tanto influente quanto occasionale, fu il caso di Giovanni Testori, nato nel 1923 e morto nel 1993, adesso ricordato come uno dei più importanti drammaturghi del teatro italiano del secondo Novecento, ardito sperimentatore linguistico a cui si devono pièce e anche romanzi quali I segreti di Milano, l’Ambleto, In Exitu, Confiteor e Il ponte della Ghisolfa.

Rocco e i suoi fratelli, datato 1960, è tuttora considerato uno dei massimi capolavori del cinema italiano di ogni tempo: lanciò prepotentemente la carriera del giovane protagonista Alain Delon, francese chiamato a interpretare un lucano emigrato a Milano, e riportò anche all’attenzione di pubblico e critica un regista del calibro di Luchino Visconti, che con la vittoria del Leone d’Argento si rifece completamente dal flop del precedente Le notti bianche. A livello di credits e di titoli di testa, Rocco e i suoi fratelli risulta liberamente e genericamente ispirato a Il ponte della Ghisolfa, una raccolta di racconti dell’allora quasi-esordiente Testori, accreditato così per il soggetto, ma non per la sceneggiatura. Il diretto interessato però più volte affermò un suo maggior coinvolgimento nell’ideazione e nella scrittura del film di Visconti, fatto in parte confermato anche dalla leggendaria Suso Cecchi D’Amico, co-sceneggiatrice ufficiale del film assieme a Visconti e a Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa ed Enrico Medioli; un altro scrittore, Vasco Pratolini, co-firmava il soggetto ma non la sceneggiatura.
Nonostante la mai sopita amarezza per come era stato, a suo dire, relativizzato l’apporto dato a Rocco e i suoi fratelli, Testori e Visconti continuarono a collaborare per almeno un altro decennio. Visconti scelse infatti più volte di adattare per il teatro dei drammi di Testori: prima L’Arialda, allestito nello stesso 1960 dell’uscita del film con Alain Delon, poi, più avanti, nel 1967, poi la rivisitazione di Testori de La monaca di Monza manzoniana, interpretata sulla scena da Lilla Brignone. Anche se Testori non nascose mai nemmeno la sua delusione per come Visconti aveva tagliato e rimaneggiato il testo della pièce, la rottura definitiva tra i due ci fu solo all’inizio del decennio successivo, verosimilmente nel 1972, quando Visconti licenziò in malo modo dal set di Ludwig il giovane attore Alain Tubas, con il quale Testori aveva una relazione e in nome del quale il drammaturgo aveva scritto anche una raccolta di poesie che sarebbe stata pubblicata l’anno successivo. Testori aveva raccomandato a Visconti Tubas, che aveva superato ben tre provini prima di ottenere la piccola parte di un sacerdote che, nella residenza regale di Monaco, attende invano di essere ricevuto dal sovrano Ludwig. Una volta sul set però Visconti fece ripetere per svariate take le battute a Tubas, insoddisfatto dell’interpretazione e anche dell’accento inglese, per poi sostituirlo, in maniera umiliante, con un macchinista scelto al momento tra la squadra di tecnici che seguiva il film.

Dal ricco archivio di manoscritti di Testori, è affiorata una testimonianza su Luchino Visconti che solo recentemente ha visto la luce, con il semplice titolo di Luchino, in un’affascinante edizione Feltrinelli con una curatela dello storico dell’arte Giovanni Agosti che rasenta il capolavoro. Luchino è un testo che risale a pochi mesi prima della rottura tra Testori e Visconti, ma ancora appartiene, in tutto e per tutto, al genere classico e ormai desueto dell’epidittico: nella sua brevità, infatti, Luchino è una lode perenne e approfondita della personalità di Visconti – non è da escludersi che venne scritta da Testori proprio per ingraziarsi nuovamente Visconti a beneficio di Alain, salvo rimanere inedita, e nota a pochi eletti del comune circolo, dopo l’allontanamento definitivo dei due. La vendetta letteraria compiuta da Testori sul regista aristocratico per il trattamento inflitto all’amato Alain non si fece infatti attendere: nella rielaborazione shakesperiana dell’Ambleto, uno dei più noti testi drammaturgici di Testori, il malefico Arlungo, la variante testoriana di re Claudio, viene descritto proprietario, proprio come Visconti, di “’na villa in quello del Zernobbio”; un’appendice poi esclusa dal testo pubblicato conteneva un attacco frontale a Visconti, con il racconto, da parte del personaggio shakespeariano Orazio, della sua grottesca visita a un “registore” a via Salaria a Roma. Pare inoltre che, dopo la fine delle riprese di Ludwig, dopo che Visconti era rimasto in parte paralizzato a causa di un ictus, Testori si sarebbe avvicinato un paio di volta alla villa viscontiana a Cernobbio, dove il regista convalescente stava montando il film, a lanciare maledizioni convinto che Dio avesse punito il suo nemico; ma qui si sfocia nella pura leggenda.

Torniamo a Luchino, quindi, un testo che inquadra il rapporto Testori-Visconti un attimo prima del disastro – un testo che, al di là delle schegge di retorica che qua e là lo compongono, rappresenta con ogni probabilità il ritratto più profondo che sia mai stato scritto a proposito del regista aristocratico per eccellenza del cinema italiano. Nel suo scritto epidittico Testori non contraddice le leggende e gli aneddoti di cui già da tempo era ammantata la personalità del Visconti regista, ma le amalgama all’interno di descrizioni caratterizzate da una rara introspezione: “la solitudine in cui Visconti da anni ama chiudersi dopo cena è diventata una leggenda, come quasi tutto ciò che riguarda la sua persona. Anche se, nel profondo, di questa leggenda pare servirsi solo per stare un po’ in pace; relativamente, è chiaro, a un lavoro come il suo che richiede sempre l’andirivieni altrui”. Nonostante il tempo passato assieme e le tre collaborazioni andate in porto, Luchino resta un enigma anche per Testori, in fondo: “chi riuscirà infatti a dire i pregi, le virtù, i dolori silenti, gli scandali, le concupiscenze, gli strazi, le ricchezze, le vastità, le ferite, le riparazioni, gli scontri, le paci, gli allarmi e le distensioni della vera solitudine, intendo di quella grande, di quella virilmente accettata, voluta, desiderata, aspettata?”.

La prosa di Testori a questo punto si china in una lucidissima e crepuscolare ecfrasi, a descrivere “la mani appoggiate con quel suo personalissimo gioco di dita alle guance, come per reggere il peso d’una testa su cui la vita ha lasciato, senza troppa carità, tutti i segni, le ombre, i solchi, le rughe e perfino i tic che doveva lasciare, a chi sta pensando, adesso, Luchino?”. Grande e motivato spazio viene lasciato, nel ritratto tracciato da Testori, a Carla Erba, la madre di Visconti, a detta dello stesso regista una figura essenziale nel far emergere nel giovane Luchino la vocazione artistica; anche se, come argomenta Agosti in uno dei suoi contributi critici, non va sottovalutata nemmeno l’influenza del padre, il duca Giuseppe Visconte di Modrone, imprenditore, filantropo e collezionista.
In Luchino, il racconto portato avanti da Testori non tocca quasi mai i momenti di collaborazione condivisa: in un’operazione ben più ambiziosa, che pure non si può definirebiografica, Testori tenta, nel suo ritratto, di ripercorrere la formazione di Visconti come uomo ancor prima che come artista, andando a scomodare, quasi fosse il personaggio di un romanzo classico, particolari episodi dei primi decenni di vita del futuro regista di Bellissima e di Morte a Venezia. Leggiamo così Testori evocare, di Luchino, “la sua natura fortemente, pesantemente e fin fragorosamente lombarda” che si fortificò dopo la morte della madre; è evidente, dice Testori in queste pagine scritte poco tempo prima dell’ictus che avrebbe semi-paralizzato il regista, che “Luchino non s’è mai fermato, anche quando alla generazione dei critici che lo osannava è parso succedere una generazione di critici che lo snobbava”, ma a questo punto la provocazione del Visconti regista divenne ancora più testarda, “continuare a costruire i propri film come opere a involucro chiuso, quando attorno tutti indicavano che l’attuale della cinematografia era di proporre al contrario opere a involucro lacerato, opere totalmente aperte” – e qui il riferimento, polemico se vogliamo, va esplicito verso Umberto Eco; altrettanto evocativo è il riferimento alla passione giovanile di Visconti per l’ippica, che permette a Testori di accostare Visconti con un pittore come Géricault, “che, del cavallo, ha fatto il fulcro principe, la fiammata e, insieme, la crepa freudiana del suo mondo”.

Luchino è uno scritto ipocrita di rara bellezza. È difficile leggerlo non pensando che di lì a poco le strade di Visconti e Testori si sarebbero divise per sempre, dopo già numerosi attriti anche pubblici, eppure la bellezza della prosa testoriana, e i numerosi lampi introspettivi che lo rendono un documento preziosissimo per comprendere la personalità del regista milanese, astraggono completamente questo ritratto dalle contingenze della cronaca, dagli alti e i bassi del rapporto tra i due artisti, che, non per nulla, è tenuto a parte. Certo è che se Testori afferma di vedere in Visconti “più che un domatore del presente che avesse sbagliato indirizzo, la statua d’un principe del passato che avesse, lui sì, sbagliato tempo, costume e basamento”, difficilmente si potrebbe descrivere in una sola frase, altrettanto bella, altrettanto profonda, il senso complessivo della vita di Visconti e del suo cinema. Ancor più di Marcel Proust, borghese parigino infiltratosi tra i circoli dell’élite francese in un momento di trasformazione radicale della società del suo tempo, di cui a lungo il regista inseguì il sogno di adattare la Récherche al cinema, Luchino Visconti fu un aristocratico affascinato dalla decadenza e dal palpabile futuro crollo della sua classe – da qui la sua fede politica, comunista, da qui la straniante bellezza di film come La caduta degli dèi, o lo stesso Morte a Venezia. Nel suo Luchino, Testori dimostra di aver colto pienamente il tratto anche autodistruttivo della personalità del Visconti maturo, e molte altre cose in più.
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