
L’eredità di “Watchmen”
Nonostante qui su Birdmen Magazine, dopo l’uscita a fine 2019, avessimo dedicato una tavola rotonda a commento di Watchmen, la miniserie HBO firmata da Damon Lindelof che espande l’universo di Alan Moore e Dave Gibbons, a quasi quattro anni dalla sua messa in onda – che riaffermava una modalità necessariamente tradizionale – possiamo permetterci uno sguardo retrospettivo non tanto sul prodotto in sé, quanto sul contesto che lo ha generato e sull’eredità che ha lasciato, spesso nascosta, endemica, invisibile, eppure folgorante come la sua fonte, quel fumetto seriale – al tempo certamente non un Graphic Novel – che tra il 1986 e il 1987 aveva saputo distillare una radicale rottura nel tessuto di una forma mediale ormai all’apice della sua crisi discorsiva.

Intanto quel 2019: a tre anni dall’inaugurazione della presidenza Trump, il Marvel Cinematic Universe celebrava il proprio apice indiscusso col successo di Endgame e la riconferma del suo Spider-Man, in casa DC si cambiava timidamente registro con Shazam! da una parte e il diametralmente opposto Joker dall’altra, mentre i due principali player dello streaming inseguivano il prossimo franchise supereroico di successo, lanciando le ambiziose The Umbrella Academy (Netflix) e The Boys (Prime Video). Il territorio apparentemente ricco di stimoli si mostra in realtà, come già accaduto sul finire degli anni ’80 in ambito fumettistico, lo specchio di un’incapacità rappresentativa, dettata da un distacco referenziale in cui il supereroe perde ogni tenuta discorsiva e qualsiasi nuova narrazione diventa una sorta di psicanalisi metanarrativa. In sostanza, la fine del decennio mostra tutti i segnali di una crisi inevitabile, un disallineamento radicale dell’immaginario supereroistico con il simbolico della cultura statunitense, figurarsi con il suo reale; il tutto in un contesto radicalmente globale.

Qui si situa Watchmen, con tutto il suo portato legacy – prodotto HBO, uscita settimanale, adattamento di un titolo già crossmediale – e la sua firma d’autore – quel Damon Lindelof che dopo aver rivoluzionato il televisivo si rifugia nel suo consolidarsi -, a cogliere nuovamente il non detto della crisi rappresentativa dei supereroi: il portato della maschera di fronte alla necessità di sicurezza, il senso di colpa irrisolto come radice culturale statunitense, le conseguenze dei postumi da trauma collettivo – il mostro lovecraftiano di Moore dell’87 come brillante anticipazione dell’11 Settembre – e, intimamente, l’incapacità da parte di una generazione di accettare che il tempo abbia una direzione. Lindelof non dà forma ad1 un sequel del fumetto, né immagina un reboot retrospettivo del film, bensì, mantenendo inalterato il titolo di Watchmen, ribadisce un discorso, lo stesso che Moore e Gibbons hanno ferocemente affermato negli anni ’80, affrontando di petto la crisi dell’insignificanza di un immaginario.

Il risultato è folgorante: senza dilungarsi inutilmente, Watchmen è un gioiello della serialità HBO, capace di equilibrare al meglio ogni spinta linguistica di quel momento cruciale del formato e di rilanciare, attraverso lo sguardo di Damon Lindelof, la palla al centro del campo supereroistico. Dopo Watchmen, nonostante i numeri quasi ridicoli per il genere (parliamo di picchi di neanche un milione di spettatori alla messa in onda), tutti i franchise si sono trovati a riflettere (nella piena ambivalenza del termine) sulle conseguenze di un titolo che nuovamente ha aperto ferite volutamente non viste nel tessuto rappresentativo.

In Marvel, sempre più compatta, nonostante il significativo calo del gradimento e della tenuta dei prodotti, si è assistito a barlumi di allineamento discorsivo folgoranti: The Falcon & the Winter Soldier è figlia diretta dello Watchmen di Lindelof, col coraggio di macchiare di sangue lo scudo virginale di Capitan America. La DC – sotto il cui tetto, per altro, abita la proprietà intellettuale di Moore e Gibbons – si è irrimediabilmente frammentata in un mosaico irricucibile – non me ne voglia James Gunn – di schegge eterogenee e imprevedibili. Mentre sulle piattaforme il formato ha sovrastato il narrativo, con prodotti autoalimentanti, microfranchise che sono nicchie entusiasmanti unicamente per chi le abita e che dello schiaffo di Lindelof hanno colto pressoché unicamente il rossore lasciato dal colpo.

È difficile guardare The Boys, Invincible o la sfortunatamente evaporata Guardians of Justice (forse il figlio più coerente di Watchmen) senza vederci tracce della dichiarazione audiovisiva di Damon Lindelof fatta attraverso la solidità di un prodotto HBO tra i più limpidi e invidiabilmente lucidi delle ultime stagioni televisive, che non rinuncia a muovere tra sperimentazione narrativa e crudeltà rappresentativa, mettendo l’accento su un dubbio, aprendo lo squarcio di una crisi, senza pretendere alcun cambiamento, in quella sottile differenza che sta tra rivoluzione e rivelazione.
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