
The Umbrella Academy – Non è un paese per supereroi
Un’abitudine assodata tra i supereroi è quella di indossare costumi appariscenti che rivelino dettagli sulle loro abilità e che permettano al lettore di fumetti o allo spettatore di cinefumetti di individuarli e riconoscerli con immediatezza. È a tal proposito ad esempio che Stan Lee, padre di personaggi iconici come Hulk o Spider-Man, tenne a precisare a chi intendesse ideare nuovi eroi come «tutti i costumi devono adattarsi al personaggio e al suo nome». Per comprendere fino in fondo la portata innovativa di The Umbrella Academy, uno degli show Netflix di maggior successo nonché uno dei “cinefumetti” più rivoluzionari dell’ultimo periodo, è allora utile iniziare a riflettere sul perché la narrazione prenda subito ad oggetto Sir Reginald Hargreeves e i suoi tentativi di imbastire una squadra di supereroi in cui, all’insegna dell’anonimato, ciascun membro si identifica con un numero e tutti indossano la stessa uniforme scolastica.

Numeri e divise
Si faccia caso al fatto che nelle scene in cui vediamo gli eroi da giovanissimi allenarsi in un quartier generale, rispondere all’allarme anticrimine che riecheggia nei corridoi o andare a combattere gli immancabili rapinatori di banche, li vediamo in sostanza vivere le più convenzionali delle avventure di supereroi. I primi anni di attività dell’Umbrella Academy sembrano infatti svolgersi all’interno di un universo narrativo che adotta le stesse convenzioni alla base di innumerevoli altre narrazioni supereroistiche, convenzioni che già metteva in luce Umberto Eco ne Il mito di Superman (1964): un universo in cui gli eroi anche se dotati di incredibili poteri svolgono la loro attività al livello della piccola comunità in cui vivono, i buoni sono nettamente divisi dai malvagi e l’ordine iniziale viene immancabilmente ristabilito con la «riprovazione terminale del male e il trionfo degli onesti».
La scelta di Sir Reginald di nominare i suoi eroi con dei semplici numeri e di fargli indossare la stessa divisa può dunque esser letta da un punto di vista metatestuale come una sarcastica presa di coscienza della produzione in serie di questo genere di narrazioni uniformate, e dunque della totale intercambiabilità di questo gruppo di eroi con quello di qualsiasi altro brand. Ma ben lungi dal voler essere l’ennesima riproposizione della solita storia già conosciuta, se The Umbrella Academy compie un tale ed ironico riferimento a questo genere di racconti lo fa solo per esplicitare le rassicuranti e familiari convenzioni narrative che andrà a decostruire e in contrapposizione alle quali prenderà avvio la vera narrazione.

Diventare adulti
Salto temporale e facciamo la conoscenza della squadra ai giorni nostri, nel 2019. A guardare quel che rimane dell’Umbrella Academy subito ci si rende conto di come quei giovani e promettenti eroi non abbiano seguito in nulla il glorioso percorso di ascesa tanto caro ai colleghi di casa Marvel o Dc. Da Klaus (Numero 4) con le sue dipendenze da ogni tipo di droga ad Allison (Numero 3) a cui hanno tolto l’affidamento di sua figlia, da Luther (Numero 1) costretto ad una vita da eremita sulla luna a Vanya (Numero 7) introversa ed estremamente solitaria, gli ex eroi di Sir Reginald sono cresciuti allo sbando, lontani dai fasti e posti ai margini della società.

Il significativo punto di rottura che separa l’Umbrella Academy di successo ma convenzionale dal gruppo di super-trentenni emarginati e pieni di problemi è stata la morte violenta di loro fratello Ben. L’aver visto il fratello morire in battaglia sembra infatti aver provocato in loro una sorta di brusco risveglio e fatto realizzare di non vivere affatto in un mondo in cui il bene vince sul male e l’ordine viene puntualmente ripristinato. Per i sei fratelli la morte di Ben simboleggia la fine delle illusioni – la fine delle favole sui supereroi – e sancisce il loro ingresso improvviso in un mondo adulto, più squallido e complicato del previsto, per cui non erano assolutamente preparati.
Anche per lo spettatore l’inattesa morte di questo super-ragazzino introduce il tema del “fallimento dei buoni” e della “perdita totale e irrimediabile”, argomenti ricorrenti nella serie e raramente o superficialmente contemplati negli spesso ottimistici universi narrativi supereroistici delineati prima. La statua mortuaria di Ben che si vede ad inizio della prima stagione è dunque per chi guarda un primo e sottile avvertimento sulla vera strada che intende prendere The Umbrella Academy: è un accenno ad un universo narrativo dominato da regole, toni e tematiche diverse a quelle cui è largamente abituato ed è quindi un invito (o una sfida) per chi guarda a stravolgere il proprio orizzonte di attese.

La fine del mito di Superman
Con l’ingresso dei supereroi in questo “mondo adulto” fatto di lutti e di affitti da pagare possiamo decretare a tutti gli effetti della fine del “Mito di Superman”: cade l’immagine utopistica del supereroe perché anche chi è dotato di superpoteri una volta cresciuto è costretto ad una vita mediocre e ordinaria. Dal misero letto nella sala caldaie di Diego (prima stagione) al lavoro da parrucchiera di Allison (seconda) sino ad arrivare alle medicine di cui viene imbottito Sir Reginald (terza), The Umbrella Academy prende quell’immagine del superuomo da sempre oggetto di grandi aspirazioni da parte del pubblico e la fa denunciare come inautentica e inattualizzabile dagli stessi supereroi.
Il lavoro più interessante in questo senso è stato compiuto sui personaggi di Luther e Diego, gli ultimi che ancora cercano di adeguarsi all’immagine utopistica del supereroe e che vengono perciò accusati da Numero 5 di essere dei «bambinoni emotivamente ritardati». Incarnando rispettivamente gli archetipi del “forzuto” e dello “svelto”, la loro inettitudine a vivere una vita ordinaria al di fuori delle “situazioni supereroistiche standard” vuole essere un dito puntato contro l’inettitudine di tutti gli altri eroi costruiti sul loro stesso modello.

Si prenda Luther che, tenutosi casto e virtuoso sino ai trent’anni, riflette caricaturalmente la purezza stereotipica di un certo tipo di supereroi. Quando finalmente muove i primi passi nel “mondo adulto” e scopre il sesso, si dimostra totalmente incapace di relazionarsi con una ragazza o già solo a comprare dei preservativi. La sua inesperienza ci porta così a realizzare quanto siano ugualmente lontani da simili contesti (o siano ugualmente avulsi dalla realtà) gli altri numerosi eroi concepiti alla sua maniera come massimamente “virtuosi” (Superman, Wonder Woman, Martian Manhunter…). E così, nel divertirsi – e nel divertirci – a ridicolizzare i propri eroi, The Umbrella Academy e Netflix ci mostrano in realtà quanto ridicoli siano i supereroi degli altri.

Ma ben oltre Luther e la sua scoperta del sesso, anche gli altri membri dell’Umbrella Academy entrano nel “mondo adulto” e finiscono così nell’interfacciarsi con problematiche finora inedite nelle classiche storie di supereroi – e che purtroppo sono qui impossibili da riassumersi. Attraverso la storyline di Allison nella seconda stagione assistiamo ad esempio alla politicizzazione degli eroi, che usciti fuori dalla loro piccola comunità prendono finalmente atto della dimensione “Stati Uniti” e sviluppano una coscienza politica oltre quella civica (a tal proposito rimandiamo nuovamente al saggio di Eco). Ma vediamo anche affrontare questioni di genere e di discriminazione sessuale nelle storyline di Klaus e Vanya, o esploriamo tematiche legate al rapporto conflittuale con la genitorialità attraverso il personaggio Diego.

Errare superhumanum est
Occupandosi comunque di “tizi in calzamaglia” The Umbrella Academy non poteva certo privarsi di momenti ad alto tasso di spettacolarità. Le microstorie dei singoli eroi sono infatti affiancate a macrostorie che coinvolgono l’intero cast e che hanno per oggetto – non poteva essere altrimenti – la salvezza del mondo intero. Ma in una storia popolata da personaggi del genere anche le avventure più tipicamente “super” non possono che essere soggette a nuove complicazioni.
La “fine delle favole sui supereroi” di cui ci parla la serie comporta necessariamente la fine della rassicurante quanto ingiustificata convenzione che il cattivo debba sempre essere alla portata delle forze del buono, altro punto su cui gli esempi in casa Marvel e DC potrebbero sprecarsi. La dissacratoria The Umbrella Academy continua così il suo percorso di decostruzione e di mortificazione dell’eroe dei fumetti mettendo in scena quel che accade quando un team di supereroi si scontra con minacce che superano di gran lunga le loro forze, talmente gravi e imponenti da far sembrare poca cosa Thanos e il guanto dell’infinito. Solo per nominarne alcune, parliamo dell’apocalisse nella prima stagione, di paradossi temporali e di olocausto nucleare nella seconda e della progressiva scomparsa dell’intero Universo nella terza.

Dal vecchio eroe sempre padrone della situazione giungiamo così all’eroe contemporaneo che non sa più che pesci pigliare. E verosimilmente, posti di fronte a simili minacce i membri dell’Umbrella Academy non possono che fallire, ancora e ancora: l’apocalisse accade nel finale della prima stagione, non riescono ad impedire la morte di JFK nella seconda e quando nella terza tornano a casa sono loro stessi ad innescare inconsapevolmente la dissolvenza dell’universo. Emblema perfetto di questa versione ridimensionata del supereroe è proprio la sua umanissima capacità di commettere errori: mentre la squadra si arrovella di volta in volta a cercare di capirci qualcosa e a trovare un piano d’azione che possa funzionare, solo troppo tardi si rende conto di come siano proprio le sue maldestre azioni a causare ciò che cerca in tutti i modi di evitare.

«Cambia il mondo. Poveretto chi è rimasto coi nonni»
Scriveva Cesare Pavese. E il nostro mondo, sembra dirci The Umbrella Academy, non è più a misura di Superman. Ben lungi dall’essere l’unico cinecomic a svolgere una simile critica, la serie si colloca in realtà in quella tradizione inaugurata già da numerosi cinefumetti “devianti” prodotti in quantità sempre maggiore, da Watchmen e Kick-Ass ai più recenti Invincible e The Suicide Squad. Tanto per citare un altro saggio di Eco, siamo forse agli albori di una nuova concezione del “superuomo di massa”. Ma cosa rimane da fare allora al nostro team di superuomini e superdonne così agée e fuori luogo, preso a calci ora dagli agenti del governo ora da sicari capaci di viaggiare nel tempo?

Non può far altro che mettersi in gioco in questo nuovo mondo pieno di sfide più grosse e provare a riconquistare il titolo di eroe, mostrando di saper ancora salvare la Terra anche se le cose si sono fatte tremendamente più difficili. Cadendo e rialzandosi, lottando con le unghie e con i denti, sostenendosi a vicenda più come tra amici che non in un team di professionisti, gli eroi del nuovo millennio riusciranno forse a dimostrare di valere ancora qualcosa, sia pure dopo incredibili disavventure e battaglie disperate (quanto divertenti) come quelle di The Umbrella Academy. Ma spetterà solo alla stagione conclusiva della serie (la quarta, annunciata ma senza ancora una data d’uscita) mettere il punto finale alle avventure dei fratelli Hargreeves e decretare così o una possibilità di rinascita e riscatto della figura del supereroe o la sua definitiva archiviazione.
Bibliografia
Eco, Umberto
1964, Il mito di Superman, in Eco, U. Apocalittici e integrati, Bompiani, Milano.
Lee, Stan
2010, Stan Lee’s How to Draw Comics, Watson-Guptill, New York City (trad. It. Disegnare fumetti secondo Stan Lee, Pavesio, Torino, 2012).
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