
Solo Dio perdona, una madre no | Speciale NWR
Uscito poco dopo il grande successo di Drive, Solo dio perdona (2013) è un film a suo modo estremo e, per questo, almeno in qualche misura inizialmente respingente. Refn sceglie di percorrere ancora una volta fino in fondo la strada aperta dalle sue intuizioni stilistiche, che qui diventano (non certo per la prima volta, ma in modo assolutamente radicale) le colonne portanti dell’operazione. Le inquadrature lunghe e insistite, nelle quali si percepisce il sovraccaricarsi di un potenziale pronto ad esplodere alla prima occasione, il gusto per la composizione geometrica che verrà estremizzato in The Neon Demon, l’uso quasi espressionista delle luci per “fare a pezzi” i corpi dei personaggi e rappresentarne così plasticamente scissioni e rapporti, sono tutti elementi che convergono nel film come in un campo attraversato da spinte e correnti in cerca di un equilibrio.

Da un punto di vista narrativo tutto è ridotto all’essenziale e questo permette a Refn di studiare, come in un laboratorio dove le variabili siano controllate, le segrete reazioni che regolano i rapporti fra i personaggi e il modo in cui le pulsioni intervengono in questa dinamica. Pochissimi personaggi si avvicendano per le strade (ma soprattutto nei locali) di una Bangkok che, se non esclusivamente, è per la maggior parte del tempo notturna. Usando in modo assolutamente magistrale i colori e accendendo ogni cromìa come se fosse un tubo di neon, il regista crea delle scenografie della mente dove i suoi individui si muovono continuamente verso poli di attrazione profondi. Julian (Ryan Gosling), sua madre Crystal (Kristin Scott Thomas) e il poliziotto Chang (Vithaya Pansringarm) costituiscono i vertici di un triangolo ideale che regge l’intero film, sino all’escalation finale nella quale tutto si riduce ad un punto, un grumo di sangue che non è che il risultato delle spinte di cui si diceva poco sopra.

Senza voler ridurre necessariamente una complessità che il film non risolve ad una forma di semplice schematismo, si può riconoscere in ognuno di questi tre individui la rappresentazione di una pulsione o dinamica psicologica, costruita attorno alle idee chiave della vendetta e del desiderio. Ogni personaggio del film è sovraccarico di segni e di senso ed è proprio questo elemento a rendere possibile quella natura “sperimentale” del film, che deriva dal porre l’attenzione alternativamente su uno soltanto di loro. Così descritto Solo Dio perdona potrebbe sembrare soltanto il risultato di un’esplorazione fredda, come se a Refn non interessasse altro che lavorare sul rapporto fra stile e contenuto, sperimentando i limiti di questa relazione. In realtà è forse più corretto dire che questo è un film “raffreddato”, nel quale l’indagine sui parametri formali dell’immagine controlla (senza necessariamente comprimere) quel substrato passionale (in alcuni casi finanche grottesco) che in certe sequenze emerge nonostante tutto, sotto forma di immagini iconiche dalla natura quasi attrazionale. Penso in particolare al corpo devastato del fratello di Billy o all’immagine finale di Julian che – in conclusione di questo suo viaggio al termine della notte – subisce una sorta di regressione uterina.

Il silenzioso vendicatore Chang è senza dubbio il personaggio più interessante del film, nonché il responsabile per l’emersione di queste immagini di corpi aperti. La sua presenza è quasi fantasmatica, emerge da un fuori campo imprecisato, esegue le sue azioni in modo freddo e meccanico finendo però col produrre uno spettacolo del supplizio (non è la stessa cosa che fa il film? E il taglio non è una delle grandi questioni del montaggio?) e lo sentiamo parlare quasi soltanto attraverso il linguaggio della canzone. Le sequenze al karaoke, nella loro straniante bellezza, sono uno dei passaggi più affascinanti del film e sembrano avere come riferimento le assurde scene in stile musical di The Hole – Il buco (1998), dove Tsai Ming-liang metteva in scena il disfacimento di una società al collasso. Se nel film di Tsai a contare era cioè soprattutto la dimensione “apocalittica”, in Refn la tragedia rimane privata, per quanto sorretta e resa possibile dall’emersione di istinti che fanno parte dell’uomo in senso radicale.

Ma, si diceva, il karaoke. In queste lunghe sequenze (una delle quali è posta programmaticamente in chiusura del film), Refn crea un vero e proprio spazio di sospensione, decostruendo in questo senso l’idea (tipica del musical) secondo cui i numeri musicali sono essenziali per il proseguimento della narrazione. Qui non solo tutto è immobile dal punto di vista drammatico, ma anche l’immagine subisce una torsione in direzione del fotografico: tutto è perfettamente fermo e soltanto il protagonista muove la bocca e alcune parti del corpo, producendosi in una perturbante performance di canto/ventriloquio di fronte a una platea di uomini in divisa che osservano immobili.
A proposito di generi, Refn compie (anche) qui un’interessante operazione di remix postmoderno, che guarda al cinema di genere (in particolare, ovviamente, alla revisione asiatica dei grandi generi di consumo) per operarvi un processo di disseccazione progressiva, di asciugatura del superfluo che alla fine ne lascia soltanto l’ossatura e (poca, ma pulsante) carne viva. In questo senso, Solo Dio perdona sintetizza e al contempo rilancia il lavoro di decostruzione avviato nei film precedenti (da Pusher a Valhalla Rising sino alle strade di Drive). Al contempo chirurgico e risolutamente pulsionale (come sintetizzare meglio un film come The Neon Demon?), il suo cinema è uno dei più incisivi del presente, capace di articolare un discorso radicale sulle immagini anche nelle incursioni
nel territorio della serialità.
Dal 2015 Birdmen Magazine raccoglie le voci di cento giovani da tutta Italia: una rivista indipendente no profit – testata giornalistica registrata – votata al cinema, alle serie e al teatro (e a tutte le declinazioni dell’audiovisivo). Oltre alle edizioni cartacee annuali, cura progetti e collaborazioni con festival e istituzioni. Birdmen Magazine ha una redazione diffusa: le sedi principali sono a Pavia e Bologna
Aiutaci a sostenere il progetto e ottieni i contenuti Birdmen Premium. Associati a Birdmen Magazine – APS, l‘associazione della rivista