
Copenhagen Cowboy – La fiaba oscura firmata NWR
A quasi 20 anni di distanza da Pusher 3, il “Copenhagen Cowboy” Nicolas Winding Refn torna in Danimarca per dirigere per Netflix una serie di razza, spronata al galoppo verso un surrealismo cupo e brutale influenzato da David Lynch e Kenneth Anger. Tipica eroina refniana, la protagonista Miu (Angela Bundalovic) è una vendicatrice solitaria con un rigido codice morale che usa poteri soprannaturali per combattere un cosmo malavitoso popolato di delinquenti di quartiere e creature soprannaturali.
Arrivata da poco in un sobborgo boschivo di Copenhagen, Miu incontra un trafficante di prostitute, la mafia cinese, un serial killer e una famiglia di vampiri. Il vicinato insomma non è dei migliori. Comincia così una discesa nelle bolge di una Danimarca più che mai marcia, fredda, solitaria, attraverso una messa in quadro stabile e geometrizzante, percorsa da sinistri bagliori al neon e vivaci contrasti. A sciogliere i nodi e i misteri dell’intreccio interviene una spirale di violenza, sacra e inesorabile come una divina provvidenza al negativo.

Ma quando si guarda Copenhagen Cowboy non vale la pena fissarsi sulla storia, per quanto intrigante e ricca di ammalianti deviazioni. Nella poetica di NWR la sceneggiatura non è mai dominante, funziona piuttosto come il racconto mitico nel teatro antico, non conta il contenuto ma piuttosto le modalità del racconto. E queste modalità riportano al centro del discorso gli elementi atomici del linguaggio cinematografico, la luce, il movimento, il gesto, il suono, il colore.
Partendo da quest’ultimo, Refn cuce intorno al corpo della protagonista lo scarto cromatico che domina l’intera vicenda, la costante lotta tra il rosso e il blu per il dominio di un’inquadratura affogata in una tenebra indistinta. Si tratta di una poetica sbilanciata spesso verso quella che Deleuze chiamerebbe una “immagine-tempo”. E il tempo di questa immagine è l’eternità: l’eterno ritorno di una potenza soprannaturale incarnata in personaggi simbolici, né benigni né maligni, ma associati da sempre alla potenza ugualmente distruttiva e generatrice della natura.

Tornano pure gli arpeggi elettronici di Cliff Martinez, anche se Julian Winding (nipote del regista) gli ruba la scena con due tracce indimenticabili, l’onirica I Promise e la demoniaca Undead is the New Red. Ma la colonna sonora prende pieghe anche più sinistre, come quando in un violento duello di arti marziali il rumore dei colpi viene sostituito da effetti sonori che ricordano i picchiaduro arcade alla Tekken. In fondo, non sarà un caso la comparsata del dio dei videogiochi Hideo Kojima, che profetizza l’esistenza di Giganti destinati a una seconda stagione – che però non si sa se riusciremo a vedere.
Come tutta l’ultima parte della filmografia refniana, Copenhagen Cowboy è un’allucinata fiaba dark che si diverte a sperimentare con il linguaggio audiovisivo, spingendolo oltre i propri limiti. Ampliare i limiti del linguaggio, sosteneva Wittgenstein, significa ampliare i limiti del mondo. E infatti il cosmo di Copenhagen Cowboy è una rete a maglie larghe in cui si impigliano suggestioni pittoriche, letterarie, cinefile e personaggi del folklore europeo – frau Holle, la Bella Addormentata, Biancaneve, i vampiri…

Se ci si abitua al ritmo lento e agli stranianti virtuosismi della macchina da presa, come le fluide e insistite panoramiche circolari, il risultato è una visione immersiva che si allontana dal modello della “intensified continuity” dominante a Hollywood, calando invece il pubblico in un’atmosfera ipnotica e rarefatta. Dopo Too Old To Die Young, Refn continua il suo percorso solitario verso la costruzione di un immaginario personale e con Copenhagen Cowboy aggiunge l’ennesimo tassello a una filmografia inimitabile.
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