
The Neon Demon – Lo Sguardo Cannibale tra Cinema e Fotografia | Speciale NWR
I titoli di testa di The Neon Demon (2016) di Nicolas Winding Refn scorrono su uno sfondo imprecisato, ora opaco ora riflettente, glitterato, metallico eppure terroso, cromaticamente cangiante, compatto ma irregolare. È l’immagine di una superficie, uno sfondo in primo piano, un elemento visivo che non racconta altro che sé stesso. Invitante, onirica, concreta, questa inquadratura sembra chiederci di essere toccata, di superare il solo coinvolgimento della vista, in favore di una sensorialità totalizzata. In fondo, le immagini pubblicitarie e di moda devono attivare il desiderio, essere accattivanti a prescindere dalla presenza di un contenuto da veicolare: il dato fondamentale rimane quello che Merleau-Ponty chiamerebbe “la palpazione dello sguardo”. E in The Neon Demon, Refn continua a minare e mettere in discussione proprio il senso della vista, costringendo l’occhio specchiarsi, a riflettere e a mettersi in discussione.

In molti hanno connotato The Neon Demon come “immagine pubblicitaria”, vanagloriosa estetizzazione virtuosistica, inganno dei sensi, come sguardo privato di una profondità, nuova iperbole iperrealista Refniana al sapore di neon. Più che critiche sbagliate, è sbagliato considerarle critiche. Perché l’atteggiamento infastidito di certi spettatori, oltre ad attestare la natura fortemente – non provocatoria – ma provocativa delle immagini Refniane, attesta la posizione che questo film assume nella sua riflessione sulle immagini. Dopo l’incipit superficiale, finalmente incontriamo il volto immobile, algido ed esanime della protagonista Elle Fanning: un presagio oscuro che la carrellata all’indietro e il controcampo sul fotografo, svelano come finzione, perché siamo su un set fotografico di cui la giovane modella, appena arrivata a Los Angeles, è oggetto e performer. Questa prima immagine del corpo di Jesse, riverso e immobilizzato su un sofà, non è che l’immagine di un’immagine, una messa in abisso dello sguardo e della finzione.
Oltre a profetizzare gli esiti tragici della vicenda di Jesse, questo quadro racconta molto del rapporto tra oggetto e soggetto in fotografia. Innanzitutto, parla della natura predatoria di uno sguardo, atto violento rivolto a una vittima che infatti sanguina solo per il suo posare. Se guardiamo alle origini del mezzo fotografico, possiamo notare come questo sia in continua relazione concettuale con la morte. Fin dalla metà del XIX secolo, infatti, gli ambiti in cui la fotografia veniva utilizzata più assiduamente erano quelli di guerra, di propaganda, del colonialismo.

Fotografare un nemico, un corpo morto ed esibito come per sancire una vittoria, così come quello di una modella, è un atto violento perché mutila e porziona la realtà, ambendo a possederla con lo sguardo. Secondo quanto teorizzato da Roland Barthes in La Camera Chiara, potremmo dire che, in quanto oggetto fotografato, Jesse fa parte di un “è stato”, ovvero di una traccia immutabile e parziale di un passaggio sulla terra, qualcosa che non è più; una definizione che sottolinea ancora di più il carattere costruttivamente postumo della fotografia in relazione al suo oggetto. Susan Sontag parla di impronte e maschere mortuarie quando parla della prima fotografia analogica, in cui la luce scolpisce la celluloide come farebbe un’orma in un terreno viscoso. In fondo, l’essere umano, unico vivente a creare e produrre immagini fin dall’antichità, è anche l’unico animale a seppellire i propri simili e questo dovrebbe farci riflettere su come le immagini non siano mai indipendenti dal tema della morte.

In quanto oggetto fotografico in posa, Jesse è una mummificazione del presente, un tentativo di immortalare l’attimo e appunto, renderlo immortale. La sua superficie, il suo aspetto perfetto e desiderabile, le garantiscono il successo nel lavoro, il centro dell’inquadratura, la tirannica invidia delle competitor. La sua parabola si concluderà nella piscina vuota di una villetta di Los Angeles; non a caso, un’altra orma nel terreno, un’altra traccia, un altro solco scavato su una superficie, molto simile per forma e funzione a quello sepolcrale, scavato nel giardino della stessa villa in cui Ruby aspetta spensierata di seppellire i resti del corpo morto-immortalato di Jesse. È proprio Ruby, truccatrice, necrofila, uno dei tanti sguardi desiderosi e famelici verso il corpo della giovane Jesse di cui è costellato il film, a pronunciare la prima battuta di The Neon Demon: «Am i staring?». Il dialogo tra lei e la protagonista, quasi interamente svolto di spalle, sembra negare l’interlocuzione. Le due donne si parlano guardandosi attraverso lo specchio che ognuna di loro ha davanti: come prima interlocutrice entrambe hanno la propria immagine, a dire dell’eterna mediazione a cui oggi è sottoposto lo sguardo, ma anche del sotto-testo narcisistico che irradia tutta la narrazione.

Il mito di Narciso vede soccombere il bellissimo giovane nel suo tentativo di agguantare la propria immagine riflessa nell’acqua, falsa-superficie che cela un abisso mortifero da cui è impossibile riemergere, l’abisso delle immagini che Winding Refn svuota d’acqua e lascia duro e impenetrabile come il fondo di una piscina. Per tutta l’opera si riattiva la triangolazione concettuale che fruiamo nelle prime scene, quella tra sguardo, bellezza e morte, come elementi di un cortocircuito inconcludibile. Jesse agisce, sceglie, ma è anche corpo inanimato, in balìa, vero emblema del combaciare tra corpo morto e corpo fotografato. La sua bellezza è l’oggetto del desiderio, la sua fortuna, la sua condanna, l’istanza che muove la narrazione filmica, ma la arresta davanti all’intervento inter-mediale della fotografia, all’interno del racconto. La sua è una figura che più che agire e scegliere per sé, diventa inanimata, lascia le redini a chi guarda, lasciandosi scomporre, rendere manichino.

In fondo, la posa non è altro che una micro-esperienza della morte. Nel tentativo di somigliare a sé stesso, di riconoscersi, l’essere umano ferma il suo essere nel tempo e si consegna al futuro come immagine, come “è stato” appunto. Allo stesso modo, in The Neon Demon, la fotografia arresta il fluire del film, si impone sullo scorrere dei fotogrammi e della vita. In una delle prime lugubri feste alle quali Jesse è invitata, le luci stroboscopiche sventrano dall’interno la peculiarità narrativa del cinema, il suo rinnovarsi ventiquattro o venticinque volte al secondo. Pochi frame rossastri, tanto fulminei da sembrare unici, si alternano al senza-immagine del buio del locale, il volto di Jesse si rifrange, il soggetto si nega e con lui il cinema per come lo conosciamo. Se l’immagine fotografica, coi suoi flash e le sue pose, arresta lo scorrere dei fotogrammi e rende i corpi sculture viventi, allo stesso modo la violenza Refniana condanna e risolve l’essere umano al puro istinto animale. Ma la riflessione sull’atto violento che si espande in tutta la filmografia di Refn si lega a qui alla violenza dello sguardo che rende il corpo feticcio antropomorfo, dettaglio senz’anima pronto alla replica.

Non è un caso se Refn ricorre così tanto alla forma tableau, in cui la rigorosa composizione visiva dei set gioca con la durata e l’immobilità di macchina ed elementi in campo. In queste inquadrature frontali e fisse i movimenti sono ridotti al minimo, la narrazione si assottiglia in pura mostrazione, il telling diventa showing, e noi spettatori siamo portati a riflettere sullo stesso atto del guardare. “Riflettere” appunto, perché il film è costellato di specchi, di cortocircuiti visivi in cui lo sguardo ritrova sé stesso in un continuo gioco di profondità negate. Il ricorso al reframing, alle cornici e ai quadri interni, sottolinea l’impossibilità di Jesse di vivere fuori da un contorno, dalla delimitazione fredda e invalicabile di un’immagine. Alla fine, l’assimilazione dell’immagine tanto agognata e invidiata non andrà in porto, il tentativo di agguantare la figura perfetta si rivelerà un inganno mortifero e a rappresentare tutto questo sarà, non a caso, un occhio vomitato, espulso. Ancora una volta, una sfida alla vista come unico senso, una critica, tutt’altro che superficiale, alla pervasività e all’imprescindibilità delle immagini, nella vanità dell’oggi.
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[…] esplodere alla prima occasione, il gusto per la composizione geometrica che verrà estremizzato in The Neon Demon, l’uso quasi espressionista delle luci per “fare a pezzi” i corpi dei personaggi e […]