
Bronson – L’esposizione artistica della violenza | Speciale NWR
Noto per essere il “più violento prigioniero britannico”, Michael Peterson ha assunto nel tempo diversi nomi d’arte a seconda delle ispirazioni e dei movimenti che lo hanno sedotto. L’ultimo, in ordine di tempo, Charles Salvador (in onore di Dalì). Prima, Charles Alì Ahmed e Charles Bronson, come l’omonimo attore statunitense tra i protagonisti de I magnifici sette (1960). E così era noto a Nicolas Winding Refn all’epoca, quando accetta di farne un film su proposta del produttore (e amico) Rupert Preston, Bronson. Non ci saremmo di certo aspettati che il regista danese si cimentasse nella costruzione di un biopic tetragono, fatto e finito (questo è fuori di dubbio), quanto l’ipotesi di un’agiografia complessa da spaccare per lavorare sulla poliedricità della psiche del suo personaggio, quindi strutturando immagini polimorfiche e polisemiche. Ma non si tratta neppure di questo. Tra la congerie delle possibilità configurative che Charles Bronson restituisce, Refn sceglie quella più prossima all’arte: la configurazione performativa.

La devozione di Bronson (interpretato da un gigantesco Tom Hardy) è tutta per la violenza e per la sua esposizione. Bronson persegue la fama giocando a glorificarsi delle sue efferatezze, vittima di un’ambizione inscalfibile nata dalla sua egolatria debordante. A circoscriverla c’è però un personale codice morale che indirizza la sua violenza soltanto verso gli uomini. Bronson non uccide e non stupra, arde solo dal desiderio di fare a botte, imbrattarsi le mani di sangue, scorticarsi le nocche e sopravvivere a un altro giro della furia vendicativa dei secondini, per poi ricominciare. Per questo, l’unico luogo possibile in cui può sentirsi a casa è quello della prigione, che tra glorificazione narcisistica e, appunto, volontà di esposizione a un pubblico che lo assecondi, assume le forme di un proscenio. La prigione come palco teatrale; la violenza come arte. C’è buona parte di Refn, in questo, che fa dei due luoghi i soli spazi del film, quelli entro cui si esprime la personale visione della bellezza del protagonista. Tra l’uno e l’altro c’è una crasi: sul proscenio e di fronte a un pubblico generico (quasi interamente al buio), Bronson in forma monologica riproduce anche i momenti della sua vita trascorsi dietro le sbarre; e, come rovescio, in alcune delle sequenze in prigione la violenza da lui perpetrata (specie nella parte iniziale) è comunicata nella forma di una danza, di uno spettacolo, tanto per la gestualità quanto per l’accompagnamento musicale e l’artificiosità saettante e sgargiante delle luci.

Truccato da mimo, sul palco Bronson si esibisce in un one man show intransigente e colmo di boria, schiuso da una prima immagine che è, giustamente, un primo piano, e dalla presentazione di sé e del proprio sogno egolatrico («my name is Charles Bronson, and all my life I wanted to be famous»). E subito la performance di Tom Hardy si fa tonitruante, le sue espressioni grottesche, il cipiglio sempre pronunciato, senza mai però sfociare in over acting. Trattandosi di performatività artistica della violenza, come dicevamo, vien da sé che debba essere il corpo scultoreo dell’attore a stare al centro, con la muscolatura lucida, madida di sudore, il lucore soffuso e a tratti brillante del sangue, il labbro e il sopracciglio spaccati in primissimo piano. La dimensione diegetica e l’esplorazione psicologica sono polverizzate perché non c’è scandaglio o rimorso, non c’è turning point, nessuna parabola, solo la sistematica riproposizione di un’immagine, organica ed elettronica come la colonna sonora che la descrive.

Lungo il tour delle carceri di cui Bronson fa esperienza, si rivela sempre una dote omeostatica del personaggio, una dote di adattamento quasi biologico al nuovo ecosistema, di facile permeabilità e di simbiosi pressocché totale. Ma tra i due spazi della prigione e del proscenio, quindi della prigione come proscenio (e mai il contrario), se ne colloca un terzo, quello dei luoghi all’aperto e del ritorno al nido familiare in cui condurre la libertà vigilata. Una parentesi, una bolla pronta a scoppiare: al di qua delle sbarre la libertà sa per Bronson di kryptonite, una irreggimentazione paludata e claustrale ben più marcata dello spazio della prigione. Bronson finisce pure per innamorarsi, ma con un disagio e un tormento estranei a quella capacità omeostatica acquisita tra una scazzottata e l’altra coi secondini. Tornare alla danza del picchiaduro e all’elettro-pop, tornare a essere un’immagine: questa è la via. E in un finale brillante (di facile richiamo e devozione forse anche onanistica ad Arancia Meccanica), Refn coniuga l’arte pittorica e l’assuefazione alla violenza in una sequenza che vede Bronson tingersi il corpo di nero e immobilizzare la sua ennesima vittima (il maestro di pittura della prigione) per vestirla da soggetto pittorico magrittiano, sottoponendola a una mortificazione (per la vittima) e glorificazione (per Bronson stesso), alla gravitas ora compiuta della creazione artistica.
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