
Pusher (trilogia) – Catabasi senza anabasi | Speciale NWR
«Se cerchi di fottermi, se cerchi di fregarmi… io fotto prima te. Sai che ti dico, Tonny? È questo il messaggio che ancora non hai mandato, perché ancora non sai come esorcizzare la tua paura. Questa è l’unica differenza che c’è tra te e me. Che ti piaccia o no.»
Al giorno d’oggi, l’itinerario seguito da chi vuole visitare Copenaghen copre spesso le tappe più iconiche della capitale danese: il Palazzo di Amalienborg, il Castello di Rosenborg, la Sirenetta, i Giardini di Tivoli, la Strøget, il Nyhavn, per poi magari fermarsi sulla strada a mangiare smørrebrød e stegt flæsk, o frikadeller, perdendo sangue dal portafogli lungo il tragitto. Trent’anni fa la città non era poi così diversa, almeno agli occhi di un turista: eppure nel periodo fra il ’95 e il ’96 qualcosa di diverso c’era davvero, anche se non era così facile intuirne i contorni. Nelle strade periferiche della città era infatti possibile incontrare, nell’ordine: Mads Mikkelsen, rasato a zero e con un enorme tatuaggio con scritto “Respect” sulla nuca; Nicolas Winding Refn, un venticinquenne sbarbato con una macchina da presa fra le mani; Kim Bodnia, sudato-trafelato e in stato di perenne agitazione; e Zlatko Buric, già caratterizzato da quello sguardo annacquato che gli avrebbe tanto portato fortuna, fino al recentissimo premio come migliore attore agli European Film Awards per la sua interpretazione di un oligarca russo in Triangle of Sadness.
Per qualsiasi cinefilo in trasferta sarebbe stato un incontro da tachicardia, quell’improvviso trovarsi di fronte a un gruppo di artisti riconosciuti oggi a livello internazionale, fra le strade di una delle più rinomate città portuali d’Europa. C’è però un piccolo dettaglio da considerare: prima del ’96, anno d’uscita del primo capitolo della fatidica trilogia dei Pusher, nessuno sapeva chi fossero: Refn, Mikkelsen, Bodnia e Buric erano degli sconosciuti vestiti da tossici e criminali, con lo sguardo allucinato e una camminata frenetica. Probabilmente, vedendo questi giovani sconosciuti sbandare fra i palazzi bassi della periferia di Copenaghen, ci saremmo stretti ai nostri zaini e avremmo attraversato la strada per evitare problemi.

L’origine: Pusher – L’inizio (1996)
È infatti in quegli anni che Pusher – L’inizio (1996) segna l’esordio registico di Refn, così come quello attoriale di Mikkelsen e Buric. Quello che doveva essere un semplice cortometraggio di dieci minuti, con Refn stesso nel ruolo del protagonista, aveva catturato l’attenzione di un produttore in cerca di scommesse per un lungometraggio. L’intento di quel gruppo eterogeneo era di raccontare il mondo della malavita danese servendosi di un linguaggio cinematografico aspro, capace di evocare reminiscenze dei gangster movies americani degli anni Settanta, ma ibridandone gli stilemi con frammenti di documentario d’osservazione, lampi di psiconarrazione e istanze di registrazione artistica riconducibili ad alcune frange del manifesto del Dogma 95, formulato l’anno precedente da Lars von Trier e Thomas Vinterberg – per quanto un giovane Mikkelsen sostenga, in diverse interviste, che siano stati questi ultimi a prendere ispirazione da Refn. Quest’ultimo, per fare in modo che i suoi neo-attori trovassero una graduale consapevolezza interpretativa, aveva inoltre stabilito di girare il film in ordine cronologico, scena dopo scena; un meccanismo atipico, che sarebbe poi stato mantenuto anche per la registrazione dei successivi capitoli della trilogia. A sottolineare ulteriormente la pretesa di verosimiglianza del film, e per puntellare la rosa attoriale che abitava lo schermo del film d’esordio, Refn aveva fatto ricorso, inoltre, a uno street casting privo di compromessi – e così avviene che, a volte, quelli che vediamo all’interno del film sono effettivi membri della criminalità di Copenaghen.
Il risultato di una tale mescolanza di intenzioni e stilemi trova forma in un iperrealismo estetico, in un’entomologia del crimine, che Refn mette in scena da una prospettiva che appare tutt’altro che posizionata a distanza di sicurezza: l’immagine granulare, al limite della pellicola da home video, si schiaccia sui volti di Frank (Bodnia) e Tonny (Mikkelsen), sui loro corpi fisici, e mette a fuoco senza mediazioni edulcoranti i traffici del sottomondo danese della droga. Un post-neorealismo al neon in veste di coca e pistole, di brown sugar e coltelli, teso al racconto di cause e conseguenze della caduta verticale di un piccolo spacciatore, e soprattutto incentrato sul mettere in evidenza fra le righe di una vita violenta la tragicità di un sistema relazionale malato e impossibile da redimere, intrappolato fra le quattro pareti della macchina da presa e, al contempo, fra le quattro pareti di abitazioni che sembrano prefabbricati di cartapesta, o di locali claustrofobici che nascondono a fatica la solitudine dei tossici. Tracksuit, catene sopra la maglietta e persecuzione: così viene alla luce la prima poetica della frammentazione di Copenaghen vista da Refn, che mettendo in scena una pluralità di etnie e aggregazioni sociali punta ad atomizzare la percezione dei suoi personaggi, a chiudere i loro orizzonti – spingendoli verso un’inevitabile e demartiniana catabasi-senza-anabasi.

I seguiti: Pusher II – Sangue sulle mie mani (2004) e Pusher 3 – L’angelo della morte (2005)
Il primo film del regista danese ottiene un grande successo, specialmente in patria, aprendo a Refn le porte per un cinema più ambizioso. Dopo Bleeder (1999), che mantiene la stessa crew e gli stessi attori di Pusher, e dopo l’evidente insuccesso di quel Fear X (2003) che vedeva John Turturro come protagonista, il danese aveva poi deciso di tornare all’origine e di girare due seguiti del suo film d’esordio, che nel corso degli anni era diventato un cult del sottobosco cinematografico mondiale. Al centro della narrazione di Pusher II – Sangue sulle mie mani (2004) c’è Tonny, lo stesso Mikkelsen-personaggio al quale nel film precedente era stato affidato un minutaggio inferiore rispetto al protagonista Frank-Bodnia, tradito dall’amante/prostituta Vic e costretto alla fuga da Milo, cui doveva una somma indiscutibile – Milo che compare nuovamente in questo film. Tonny è un “figlio di”, è il primogenito di uno dei boss della malavita di Copenaghen, ma è soprattutto il simbolo di una fragilità, di un’incapacità materiale nella gestione della vita: la sua esistenza è il canovaccio rovinato dall’usura di un’umiliazione continua, ciclopica e centripeta, e a nulla valgono i suoi sforzi tragicomici di riconquistare la fiducia del padre-padrone, che gli preferisce un secondogenito nato dalla sua unione con una prostituta.
Come il Frank del primo episodio della trilogia, Tonny è soltanto un satellite del campionato della droga danese, impossibilitato all’accesso nella zona nucleare dello spaccio e delle responsabilità – un eterno bambino, impotente e sedato, che diventa improvvisamente padre a sua volta di un bambino non desiderato, sul quale tenta di non rovesciare le angosce che fino a quel momento aveva tenuto sepolte sotto uno strato di droga e menefreghismo criminale. E ogni cosa, sembra dire Refn, è riconducibile alla famiglia: ogni azione di Tonny è da mettere a sistema fra i due poli opposti della figura paterna che lo respinge e della madre che, morendo, lo abbandona a sé stesso. C’è chi dice che Tonny sia l’immagine metaforizzata e granulare di Refn stesso, che non ha mai fatto mistero d’aver avuto un rapporto molto complesso con i propri familiari, e in particolare con la figura del padre e della matrigna; a sostenere questa lettura autobiografica del film concorre il fatto che durante la lavorazione del film Refn sia diventato a sua volta padre, e che abbia voluto inserire nella narrazione una figura filiale che agisce passivamente da ancora di salvataggio per la vita spezzata di Tonny – l’unico personaggio del film ancora puro, ancora privo di un legame diretto con la dipendenza dagli stupefacenti e dalla violenza.

Il film segna il ritorno al successo del regista. L’anno successivo Refn torna in sala con Pusher 3 – L’angelo della morte (2005), e completa il percorso d’analisi del metamondo tossico di Copenaghen: così come Frank-Bodnia non era mai apparso nel secondo film, la fuga di Tonny-Mikkelsen col figlio, in chiusura di Pusher II, implica la sua assenza dal terzo episodio della trilogia. L’impressione è quella di un meccanismo narrativo fagocitante, di una macchina da presa che con la sola propria presenza, e col proprio focus su uno specifico personaggio per film, riesca a spingere Frank alla definitiva perdizione e Tonny a una possibile salvezza – in entrambi i casi, però, è necessaria una fuga. La vita di Milo-Buric, cui è dedicata l’intera narrazione di Pusher 3, si pone esattamente a metà fra i destini dei due giovani criminali, e a ragione. Milo, infatti, non è un semplice spacciatore, né tantomeno un figlio di Copenaghen. Il personaggio interpretato da Buric rappresenta uno degli esponenti nevralgici dello spaccio danese, ma quel che appare evidente sin dalle prime inquadrature dell’ultimo capitolo è che il tempo passa per tutti: lo spietato Milo, che nel primo film spingeva Frank alla disperazione per un debito non saldato, e che nel suo locale esibiva un poster raffigurante Željko Ražnatović, leader paramilitare delle “Tigri di Arkan”, cede il passo a un Milo che frequenta le riunioni dei tossicodipendenti anonimi, e che si impegna in tutti i modi per organizzare una festa di compleanno coi fiocchi per l’adorata figlia venticinquenne.
È un Milo che deve fare i conti con nuovi ritmi “lavorativi”, con un nuovo sincretismo etnico-sociale che impone fenomeni di ricalibrazione del mercato dello spaccio – e non è detto che si riesca a restare al passo della concorrenza, al passo col presente: le guerre balcaniche hanno mescolato le carte, e la Copenaghen del sottomondo è a un passo dal caos. Radovan, il tirapiedi di Milo che nel primo film minacciava o giustiziava i debitori ma sognava di aprire un ristorante, è riuscito nel suo intento e ha abbandonato la vita criminale. Solamente una richiesta disperata di Milo lo spinge a tornare alle vecchie maniere, alla carneficina gelida che Refn mette in scena in una sequenza da macello artigianale. A differenza di Frank e Tonny, Milo non deve fuggire per salvarsi da una condanna imminente – però si sente (e si sente forte) il senso di un mondo che è giunto al collasso, all’ultimo impeto catastrofico. La trilogia si chiude così, con un forte senso di vuoto, con la vertigine di fronte al precipizio – ma se l’attore che in Pusher 3 interpretava Mohammed (Ilyas Agac) non si fosse fatto arrestare per qualche questioncina illecita, finendo in carcere per un buon periodo di tempo e costringendo Refn a portargli una copia del film in cella, probabilmente avremmo fra le mani anche un quarto capitolo cinematografico sulla violenta miseria del regno dello spaccio danese.

Miscellanea: qualche linea d’analisi
Quel che appare evidente, e che allontana la “trilogia dei pusher” dall’archetipo del gangster movie d’importazione americana – così come anche da prodotti successivi come il nostrano Gomorra, per quanto in maniera diversa – è la trama simil-edipica che traspare fra le maglie della narrazione triadica. La dipendenza dalle droghe, la responsabilità nei confronti dei propri simili e gli incombenti processi di globalizzazione sono coordinate che trovano forma-per-immagini all’interno di uno schema duramente psicologico. È così che Frank cerca con impaccio la considerazione e l’amore di Vic, la prostituta che finirà per tradirlo; è così che Tonny soffrirà moltissimo la morte di una madre fino a quel momento invisibile, reagendo violentemente nei confronti del padre fino ad ucciderlo, e regalandoci una sequenza meravigliosa in cui accenna al suo amico Ø della morte della madre, mentre cambia per la prima volta il pannolino di suo figlio – un cerchio che si chiude, e un’insperato momento di consapevolezza sentimentale da parte di Tonny. In maniera abbastanza simile, Milo idealizza e venera la figlia Milena anche in virtù dell’assenza della figura della moglie, già morta in precedenza in circostanze sconosciute. Per quanto i tre Pusher siano stati letti molto spesso come film “al maschile”, come contrasti testosteronici fra disperati e criminali, in realtà è argomentabile che il vero epicentro narrativo della trilogia sia una macrofigura materno-femminile che sembra operare in absentia, e che muove passivamente la rabbia tossica dei personaggi abbandonati come cani alla strada.
In maniera simile, ci si è interrogati relativamente poco sul sottotesto etnico dei tre film. Refn mette in scena con cura la commistione di due movimenti diversi ma geograficamente concomitanti, vale a dire da un lato l’ondata di pre-globalizzazione postmoderna che traccia una scia in Europa fra gli anni Novanta e i primi Duemila, e dall’altro la frammentazione etnica dovuta al retaggio tardo novecentesco delle guerre balcaniche. Il clash per il controllo della droga di Copenaghen è linguistico, prima ancora che sanguigno: nella città isomorfizzata dagli sguardi tossici dei personaggi di Refn l’arabo risponde al danese, l’albanese al turco, il serbo al macedone, e il polacco di nuovo all’arabo – e allora si tratta davvero solamente di una lotta per la droga? Di una lotta per i soldi? Copenaghen, la droga, i soldi e la violenza sono le costanti dei tre film, ma paradossalmente sono immagini di facciata che raccontano un conflitto più radicato, più borgesianamente babelico. Le strisce di cocaina, le pasticche e il brown sugar, che faceva stragi di giovani in Europa, sono il viatico di comunicazione per delle comunità de-localizzate; il conflitto si trasla così dal microscopico (il clan danese dello spaccio, omogeneo dal punto di vista linguistico) al macroscopico (i clan esterni, da Milo agli arabi). Le luci al neon, le notti danesi, i colori elementari schiacciati sulla carne dei personaggi, immagazzinata a stretto contatto dalla macchina da presa – sono tutti esempi di una sintomatologia della catastrofe contemporanea.

Con la “trilogia dei pusher”, Refn apre una riflessione urbana (ma elevabile ad archetipo) autoconclusiva, un sistema di corrispondenze tematico-narrative di grande pregio. Le storie di Frank, di Tonny e di Milo non sono solamente le storie di Frank, di Tonny e di Milo: sono le storie delle fondamenta del vivere, e dell’impossibilità che ne sottende la realizzazione. Quindi corri, Frank, e corri, Tonny. Scappate da Copenaghen prima che sia troppo tardi, come troppo tardi è stato per Milo – e prima che Copenaghen diventi teatro di fiabe notturne per cowboy androgini, dove si aggira il fantasma di Buric.
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