
La Legge di Lidia Poët – L’arteficio della modernità
È l’11 novembre quando una sentenza della Corte d’Appello di Torino dichiara illegittima l’iscrizione di Lidia Poët all’albo degli avvocati. L’avvocatura è ritenuta “un ufficio nel quale le femmine non devono immischiarsi”, anche perché è “disdicevole e brutto vedere le donne accalorarsi in discussioni che non spettano al sesso gentile”. Nonostante quindi la laurea in giurisprudenza e il praticantato superati con ottimi risultati, le viene impedito di esercitare la sua professione solo ed esclusivamente perché donna.
La storia di Lidia Poët è una tappa importante della battaglia per i diritti delle donne in Italia, ma con il tempo si è lentamente dimenticata. Ora la casa di produzione Groenlandia (già dietro a Romulus) cerca di riportarla all’attenzione del grande pubblico grazie a La Legge di Lidia Poët, una serie in 6 episodi che sarà disponibile su Netflix a partire dal 15 febbraio.

Una vita del genere, tra le lotte con uno Stato che non le riconosceva i propri diritti e lei che si impegnava per difendere quelli altrui, avrebbe potuto essere la base perfetta per un biopic, ma La Legge di Lidia Poët desidera quasi approfittare della fallace memoria italiana per poter creare una storia ex novo, che gioca la modernità senza però capire quanto fosse già attuale la sua protagonista. Il pretesto rimane lo stesso: dopo la sentenza della Corte d’Appello, Lidia (interpretata da Matilda de Angelis) si trova costretta a ricorrere a sotterfugi per poter ancora lavorare nell’ambito. Costretta a fare l’assistente presso lo studio legale del fratello Enrico (Pier Luigi Pasino), si appropria dei suoi clienti mentre prepara il ricorso da presentare alla Corte.
Da quel momento la serie diventa un effettivo procedural sullo stile di Bones e Castle, proponendo in ogni episodio un caso stand-alone che fa da sfondo alle vicende personali della protagonista, aspetto a cui La legge di Lidia Poët è di gran lunga più interessato. Il crimine si trasforma così in un gioco per Lidia, un modo per dimostrare alla società che si è sbagliata sul suo conto e che merita di esercitare la professione per cui ha lavorato duramente. La serie tuttavia finisce per rendere Lidia più una detective che un’avvocata, ricordandosi solo sporadicamente la sua battaglia o facendola raccontare a terzi.
Nella casa del fratello Enrico, difatti, si aggira anche Jacopo Barberis (Eduardo Scarpetta), un giornalista sfrontato e malizioso della Gazzetta Piemontese, che, incuriosito dall’avvocata, decide di seguire le imprese dell’avvocato anche con la sua penna. Non si tratta tuttavia dell’unico personaggio chiamato a fare da portavoce ai sentimenti della stessa Lidia: spesso la sua frustrazione è espressa in modo più articolato da Teresa Barberis Poët (Sara Lazzaro), la moglie di Enrico e sorella di Jacopo. Lei rappresenta la tipologia di donna più apprezzata all’epoca, una moglie mansueta, dedita alla cura della casa e della famiglia, senza mai imporsi troppo. Quando Lidia si trasferisce a casa del fratello, è proprio Teresa a soffrire di più la sua presenza ed è in nome del loro rapporto antitetico che lei è chiamata ad esplicitare il pensiero dell’epoca, riassumibile con la perentoria “Se Dio ti voleva avvocato, non ti faceva donna”. La protagonista è continuamente raccontata tramite la sottrazione: Lidia non è mai qualcosa di specifico, ma è sempre il contrario del modello che viene offerto. La serie le permette di esistere solo in una prigione chiaroscurale in cui il suo coraggio viene ridimensionato e la sua agency è estremamente controllata per rientare in una storia che poteva benissimo funzionare senza di lei.

Pur usando il nome di una persona così rivoluzionaria per il tempo in cui ha vissuto, la serie, creata da Guido Iuculano e Davide Orsini per la regia di Matteo Rovere e Letizia Lamartire, si muove in terreni forse troppo familiari e scontati per il pubblico. Una storia di vita che si prestava perfettamente a un adattamento seriale viene dimenticata in nome di un procedural tradizionale ed episodico che talvolta si intreccia con una commedia romantica moderna ma adornata dai vestiti sfarzosi dei period drama.
Si cerca quindi di trasformare Lidia Poët, o almeno il personaggio che porta il suo nome nella finzione seriale, in un’icona pop secondo i canoni più contemporanei del termine, un punto di incontro ideale tra Sherlock Holmes e Fleabag. Anche la colonna sonora partecipa a questa operazione, affiancandole canzoni che vanno da Florence + The Machine al sottofondo in una celebre pubblicità di profumi. Il tentativo di rendere la serie appetibile al target più giovane finisce per fraintendere quanto Lidia Poët sia già per natura un personaggio moderno e rivoluzionario, che meritava di essere ricordata in modo accurato e meno spettacolare.
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