
Il Divin Codino – Roberto Baggio, umano troppo umano
È stata distribuita il 26 maggio su Netflix Il Divin Codino, pellicola italiana firmata Letizia Lamartire che, come da sinossi, “ripercorre i ventidue anni di carriera di Roberto Baggio, soffermandosi tanto sulla storia del campione quanto su quella dell’uomo”.
Il film è uno dei più attesi di questo periodo, ed è stato accompagnato da un battage pubblicitario notevole, tra riedizioni delle maglie storiche di Baggio, una canzone scritta per l’occasione da Diodato e rare riapparizioni pubbliche del notoriamente schivo ex calciatore oggi cinquantaquattrenne.
“Che cosa avete contro la nostalgia? È l’unico svago che resta per chi è diffidente verso il futuro”, diceva Carlo Verdone ne La grande bellezza di Sorrentino (2013), e di fronte a un’altra “grande bellezza” ormai appartenente al passato, quella dell’arte calcistica di Baggio, forse gli si può dare ragione.

Un po’ come per l’abbigliamento, più o meno a cicli di venti-trent’anni la nostalgia di un’epoca fa capolino, con l’effetto di riavvolgere il nastro dei ricordi per chi c’era e di far scatenare l’immaginazione e la curiosità di chi non c’era, e il calcio degli anni Novanta non fa eccezione.
Non è un caso quindi se più o meno nell’ultimo lustro siano fiorite pagine su pagine social dedicate al calcio d’antan (“Serie A – Operazione Nostalgia” la più nota, col rimpianto dei bei tempi già dichiarato nel nome). Addirittura, esistono casi come quello di Francesco Totti in cui una carriera sembra appena finita e già si rende epopea televisiva ciò che fino a poco tempo prima era cronaca d’attualità (ovviamente il riferimento è a Speravo de morì prima, la miniserie interpretata da Pietro Castellitto andata in onda su Sky a marzo scorso).
Il Divin Codino, titolo che (c’è bisogno di dirlo?) si rifà all’appellativo con cui Roberto Baggio da Caldogno, classe 1967, è passato alla storia dello sport, vuole sì essere la celebrazione di un idolo entrato nell’immaginario pop (Cesare Cremonini e il suo “Da quando Baggio non gioca più” docet), ma si concentra quasi esclusivamente sul suo lato privato, ripercorrendo non tanto “la storia del campione”, quanto quella dell’uomo.
Per farlo, adotta una strategia rischiosa, e in questo caso non particolarmente vincente: concentrarsi solo su alcuni momenti specifici della lunga carriera di Baggio, saltando a piè pari intere epoche, e tratteggiando quindi non tanto una biografia del calciatore quanto un ritratto del suo carattere fotografato in varie fasi della sua vita.

Di fatto, esattamente ciò che aveva fatto, per citarne uno, lo Steve Jobs di Danny Boyle (2015), che invece di ripercorrere cronologicamente gli eventi del fondatore della Apple lo mostrava in tre singoli episodi risalenti al 1984, al 1988 e al 1998. Solo che in quel caso, a supplire – nemmeno poi completamente – all’assenza di storia, c’erano i dialoghi acuminati di sua maestà Aaron Sorkin, mentre qui, dispiace dirlo, non ce n’è traccia.
Il Baggio del Divin Codino lo vediamo anche qui solo in tre momenti: quando, nel 1985, fa il grande salto in Serie A venendo acquistato dalla Fiorentina; quando nel 1994 trascina l’Italia alla finale dei Mondiali statunitensi, e sbaglia il fatidico rigore che l’avrebbe tormentato a vita; e quando, nei primi anni Duemila, si trasferisce al Brescia sotto l’ala protettiva di Carlo Mazzone, e trova una seconda giovinezza in quella squadra di provincia così lontana dal suo status di superstar.
Della Firenze messa a ferro e fuoco dai tifosi quando fu venduto alla Juventus non c’è traccia, del Pallone d’Oro 1993 neanche, degli scontri in spogliatoio con Marcello Lippi nemmeno, così come degli altri due Mondiali disputati (1990 e 1998).

Soprattutto, però, ciò che manca è la ragione per cui Baggio è rimasto nel cuore dei tifosi italiani, ovvero la sua arte calcistica. Sì, Baggio aveva la faccia giusta per piacere a tutti, aveva una capigliatura che ha fatto epoca, una fede buddista che incuriosiva e una carriera che ha attraversato molte squadre diverse, ma al fondo del suo fascino c’era sicuramente la magia che sapeva imprimere a un goal o a un dribbling, lasciando ammirati i supporter come gli avversari.
Senza contare poi che, per chi non abbia familiarità con la sua storia, il film è assolutamente insufficiente a farsene un’idea, così concentrato com’è a scavare nei demoni personali (che poi, come in mille altre storie biografiche, si riconducono quasi sempre a un tormentato rapporto con la famiglia), finendo per dimenticarsi di ciò che è stato Baggio sui campi di calcio. Perfino l’assenza di Bruno Pizzul come voce delle telecronache sembra l’affronto estremo a chi voglia trovare in questo film non solo il lato privato dell’uomo, ma anche ritrovare una parte della memoria collettiva di questo Paese.
Nulla toglie che le interpretazioni del protagonista Andrea Arcangeli (perfetto nel riprodurne la parlata), di Andrea “Il Pojana” Pennacchi (ormai specializzato in parti da padre burbero) e di Martufello, nel ruolo del bonario Carletto Mazzone, siano tutte più che riuscite, ma i loro dialoghi spesso non sono che la riproposizione pedissequa di interviste e libri biografici, senza scatti di fantasia.

Qui, per scelte registiche o per questioni di diritti, le giocate di Baggio sono pressoché assenti, ed è come realizzare un biopic su Van Gogh senza mostrarne le opere: certo, i tormenti personali risulteranno coinvolgenti e perfino commoventi, ma mancherà sempre la controparte della creazione del Bello che lo ha reso diverso dagli altri, artista e non solo uomo.
Come gli dice la moglie a un certo punto, la gente lo ha amato e lo ama proprio perché quel rigore l’ha sbagliato, mostrandosi umano, ma il lato umano e fallibile non può lasciare una vera traccia se prima non si è assistito al non-umano, al Genio, all’infallibile. E allora meglio rivolgersi alle innumerevoli compilation di goal su YouTube, che di arte non difettano.
Assistere alla rievocazione delle maglie di USA ’94 e a quell’esultanza col dito puntato verso il cielo americano dà ancora un brivido di esaltazione, ma quando il talento è così raro e le azioni che ne scaturiscono così uniche, l’originale darà sempre più piacere di qualsiasi copia.
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[…] cui ha vissuto, la serie, creata da Guido Iuculano e Davide Orsini per la regia di Matteo Rovere e Letizia Lamartire, si muove in terreni forse troppo familiari e scontati per il pubblico. Una storia di vita che si […]