
Romulus – Spettacolo senz’anima
A quasi due anni dall’uscita nelle sale de Il primo Re, è disponibile su Sky e Now Tv la serie Romulus, sempre concepita e in parte diretta dal regista e produttore Matteo Rovere in un progetto che, sebbene non abbia legame narrativo con il film, presenta più di un elemento in continuità con esso, condividendone pienamente l’immaginario di riferimento. Non si tratta solo di avere in comune l’ambientazione spazio-temporale: i costumi, i riti, i contenuti e perfino alcuni attori tornano in questo prodotto seriale che si snoda per dieci episodi di circa 60 minuti ciascuno e che offre così l’occasione di approfondire alcuni elementi solo accennati nella pellicola antecedente.

Tuttavia le premesse – e promesse – messe in campo da Il Primo Re non vengono soddisfatte nella serie. Romulus, da un punto di vista narrativo è assolutamente leggibile come un prodotto indipendente e sembra non sviluppare appieno tutte le potenzialità accennate dalla pellicola, perdendosi in una cura maniacale del comparto spettacolare (che è l’aspetto più interessante della serie) e risentendo incredibilmente di una scrittura loffia e a tratti banale che non riesce mai del tutto ad agganciare lo spettatore.
Fin dai primi episodi non possiamo non accorgerci di come Romulus prenda a piene mani elementi da due giganti del calibro di Macbeth e Game of Thrones. Del primo, la serie si appropria della struttura narrativa e di tantissima simbologia, svuotandolo però di tutto ciò che ha reso la tragedia shakespeariana un capolavoro; del secondo preleva quegli elementi spettacolari che hanno portato il mondo di Westeros a essere celebre in prima ora (scene di sesso esplicite, fiumi di sangue, un mondo fittizio creato e raccontato – soprattutto nelle prime stagioni – maledettamente bene), tutti elementi che erano sorretti da una sceneggiatura solida basata sui lavori di George R.R. Martin, artefice di personaggi dotati di una loro credibilità.

Quello che qui appare carente è proprio una caratterizzazione incisiva dei personaggi, le cui evoluzioni sono trattate superficialmente o si risolvono troppo velocemente (il personaggio di Ilia – la bravissima Marianna Fontana – è una wannabe Arya Stark in un’operazione che non riesce); pochissimi sono i personaggi che si salvano da questo meccanismo e a poco serve l’abilità degli interpreti (Andrea Arcangeli nei panni di Yemos, Francesco Di Napoli interpreta Wiros, Sergio Romano è Amulius); l’elemento religioso, vero motore e demiurgo di tutta l’azione, qui è una presenza pervasiva che limita di molto il libero arbitrio, le volontà e i sentimenti dei protagonisti, che appaiono così costantemente e inevitabilmente impediti, impoveriti del loro potenziale. Ciò che emerge è una coralità di personaggi deficitari di quell’elemento che potrebbe essere necessario per empatizzare con loro: l’umanità.

Di contro la scelta del protolatino, già perpetrata ne Il Primo Re e intelligentemente riutizzata, appare nuovamente un’operazione riuscita, che aiuta davvero concretamente a rendere l’esperienza di visione più immersiva: il mondo che ci viene descritto è talmente brutale, ferino e lontano negli usi e nei valori dal nostro, che l’utilizzo di una lingua arcaica ci appare utile per rendere il tutto più credibile e godibile. Alcune scene riescono infine a essere notevoli in quanto a costruzione e impatto visivo, grazie anche a trovate luministiche e scelte di fotografia che spesso strizzano l’occhio più al pop che al realistico, con un effetto estetico tutt’altro che spiacevole. Ma se da un lato abbiamo un risultato che riesce ad appagare l’occhio attraverso costumi, trucco e scenografia, dall’altro c’è l’evidente difficoltà per lo spettatore di riuscire a perdersi nella narrazione, cosa che purtroppo non sempre riesce ad avvenire in quello che è uno svolgimento dal ritmo altalenante, soprattutto nel finale.

Tutte le scelte registiche che puntano sulla spettacolarità non mascherano i difetti di un prodotto che, nonostante le intenzioni del suo produttore, fatica a risultare fresco; il rischio che si corre, in ultima analisi, è che la ricerca di creare un prodotto il più internazionale possibile, porti invece a toccare il confine del meno nobile, seppur legittimo, commerciale. E non è detto che sia un male; però dispiace.
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