
Parodia della mimesi – Miracolo a Hollywood di Orson Welles
Nella sua sfaccettatissima carriera, Orson Welles è stato molte cose. Geniale conduttore radiofonico, ai primi tempi. Enfant prodige di Hollywood, dopo Quarto potere. Parìa degli studios, dopo L’orgoglio degli Amberson. Regista sperimentale, con F for Fake. Grande interprete shakespeariano, lungo tutta la sua carriera. Se la sua personalità registica fu diversissima, costantemente protesa alla sorpresa e alla sperimentazione, e nei suoi ruoli sul grande schermo in fondo interpretava (quasi) sempre sé stesso in maniera ora altisonante ora caricaturale, un leitmotiv che accompagnò tutta la carriera artistica – dai primi passi negli anni trenta fino alla morte nel 1985 – fu la passione per il teatro.
Il suo debutto a Broadway ci fu nel 1934, quando interpretò la parte di Tibaldo in un’ennesima trasposizione scenica di Romeo e Giulietta; poco dopo strinse un significativo e inizialmente fortunato sodalizio con il regista, attore e produttore teatrale John Houseman; fondata assieme la compagnia Mercury Theatre, i due si cimentarono in un adattamento del Giulio Cesare di Shakespeare calato nel contesto dell’Italia fascista che, anche grazie alle polemiche suscitate, godé di uno straordinario successo di pubblico; ma una volta che Welles fu chiamato a Hollywood con un chiacchieratissimo contratto che gli assegnava compensi faraonici e una notevole libertà creativa, il suo rapporto con il socio si ruppe durante le débacle autoriali e produttive che accompagnarono la realizzazione di Quarto Potere, recentemente ritratte anche da David Fincher nel suo film per Netflix. Se il suo momentaneo successo cinematografico ne fece diradare per un po’ le apparizioni in palcoscenico, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale Orson Welles tornò a teatro prima con un adattamento del Giro del mondo in ottanta giorni di Verne, poi con numerosi drammi shakespeariani che intanto andava anche trasponendo a film (il Macbeth, Falstaff dall’Enrico IV, l’Otello). Tra le sperimentazioni teatrali della seconda metà della vita di Wells, particolare rilievo lo assume Moby Dick. Prove per un dramma in due atti, andato in scena nel 1955 al Duke’s Theater di Londra, un curioso esperimento meta-teatrale e meta-narrativo scritto, diretto e interpretato da Welles, completamente diverso dal film hollywoodiano diretto da John Huston che nello stesso periodo vide Welles chiamato per un cameo nel ruolo di padre Mapple.

Come nel cinema Orson Welles forse detiene il record di regista col maggior numero di progetti annunciati, spesso anche iniziati, ma mai finiti – indicativo è il destino avuto da The Other Side of the Wind negli ultimi anni – anche sul fronte teatrale la carriera di Welles fu caratterizzata da un’iperattività creativa che ha reso frammentaria e di difficile reperimento la sua produzione drammaturgica. Se il testo di Moby Dick. Prove per un dramma in due atti è stato tradotto ed edito in Italia qualche anno fa dalla Italo Svevo, recentemente la Sellerio di Palermo ha approntato una graziosa edizione di Miracolo a Hollywood, curata dal critico e documentarista Gianfranco Gagni. Miracolo a Hollywood – in originale in realtà The Unthinking Lobster – da tempo era sparito dalla circolazione: l’originale edizione francese del 1952, che pure era stata definita da Le Monde “un capolavoro di arte scenica”, da decenni risultava fuori catalogo. Pare che a suo tempo Welles avesse anche girato un cortometraggio che facesse da preludio alla pièce, ma questo risulta, ad oggi, perduto. Miracolo a Hollywood fece parte solo per poche settimane del repertorio teatrale di Welles: la sua prima messa in scena, al Theatre Edouard VIII di Parigi, durò quattro settimane tra giugno e luglio 1950; la accompagnava peraltro una seconda pièce, Time Rules, ispirata alla leggenda di Faust, sotto il titolo comune di The Blessed and the Damned. Il debutto francese fu però un flop di pubblico e, dopo una breve tournée anche nella Germania Ovest, non si ebbero altre rappresentazioni di nessuna delle due pièce.
Il 1950 di Miracolo a Hollywood segnava, nella vita di Orson Welles, una data in cui il regista, ancora trentacinquenne, era ormai completamente disgustato ed estromesso dal circuito hollywoodiano, ma si stava rifacendo in Europa grazie al successo de Il terzo uomo, un film diretto da Carol Reed e premiato a Cannes in cui nonostante la sua apparizione tardiva Orson Welles era riuscito a rubare completamente la scena alle due star protagoniste Joseph Cotten e Alida Valli.

La storia satirescamente rappresentata nella pièce si svolge a Hollywood, in una Hollywood ormai ossessionata dalle potenzialità commerciali dei film a soggetto religioso – “c’è più richiesta di martiri che di ballerine”, commenta all’inizio un produttore, che pure insiste per ridurre all’osso il racconto della Creazione perché “sarà pure nella Bibbia, ma non rientra nel mio budget”. Per dirigere il nuovo kolossal di questo filone, un film su una santa simil-Bernadette che fa miracoli e cura gli infermi, un regista neorealista italiano è stato chiamato oltreoceano, ma una volta ad Hollywood si è fatto prendere la mano, non sembra aver ancora imparato la distinzione tra i set a cielo aperto del cinema italiano del dopoguerra, e gli sfarzosi studios della Los Angeles bene: arriva addirittura a licenziare in tronco la diva protagonista rimpiazzandola con una segretaria che gli sembra più spirituale; poi per girare una scena in cui ci sono molti storpi l’italiano ha convocato sul set dei veri menomati per obbedire alla “scuola italiana del semirealismo”: come spiega lo sceneggiatore della pellicola, “i veri malati si usano solo per qualche totale all’inizio, poi passiamo al primo piano di sant’Anna, e solo dopo, quando si ritorna sui malati, vengono inquadrate delle comparse professioniste”.
È a questo punto delle riprese che accade l’imprevisto, il miracolo del titolo: la dattilografa li benedice e gli storpi gettano via le grucce. Improvvisamente, Hollywood diventa la nuova Lourdes, i frammenti di pellicola vengono venduti come reliquie ma gli affari vanno a rotoli, perché la folla di pellegrini impedisce di continuare a girare e nessuno sembra più interessato al cinema – “chi lo poteva immaginare, Jake? Una città senza Dio come questa, trasformata in un luogo santo. Dove andremo a finire?”, commenta caustica una giornalista. L’industria si salva solo con l’arrivo di un Arcangelo che convoca i capi degli studios per stringere una grottesca alleanza: il Cielo è disposto a sospendere ogni miracolo, purché Hollywood smetta di fare film religiosi… “Un miracolo non prende in giro Dio. Al contrario è Nostro Signore che si prende gioco di noi”, è il commento caustico di un arcivescovo, che sintetizza bene la rappresentazione del sacro all’interno del film. “Abbiamo tutti un capitale spirituale. Presto si dovrà investire nella fede, altrimenti sarà la bancarotta. Anche se forse siamo in ritardo e troppo poveri di spirito per sopportare il costo di un miracolo”.

Questo Miracolo a Hollywood, che a un lettore italiano può anche ricordare un Boris ante litteram colto nei suoi momenti più da Il giovane Ratzinger, essenzializzato rappresenta una mordace parodia della mimesi, del neorealismo, dell’idea stessa di una realtà fedelmente trasposta dall’arte, cinema, teatro o letteratura che sia: sotto la veste del soprannaturale, l’immaginario prorompe prepotentemente nel quotidiano, già di suo farlocco, che si può respirare su un set, e, per la gioia dell’ossessivo regista, i miracoli iniziano davvero ad accadere, davanti alla macchina da presa – solo che sono così travolgenti da far perdere ogni interesse per il cinema che certe magie le dovrebbe ricreare, non testimoniare.
Difficile non leggere nel ritratto del regista italiano che parla sempre fuori scena un riferimento caustico alla figura di Roberto Rossellini, ai tempi idolatrato a Hollywood. Rispetto al neorealismo rosselliniano Welles, dopo un’iniziale fascinazione, si era presto ricreduto, tanto da dire in un’intervista con André Bazin che film come Roma Città Aperta e Paisà “provano semplicemente che gli italiani sono degli attori nati e che in Italia basta prendere una macchina da presa e metterci delle persone davanti per far credere che si è registi”. Il gioco del chi-è-chi non si ferma qui, però: come argomenta il curatore Gianfranco Gagni nell’approfondita postfazione che chiude il volumetto, è difficile non intravedere dietro il personaggio della star hollywoodiana licenziata dal regista per scarsa aderenza al reale o Jennifer Jones, allora reduce dal suo ruolo in Bernardette, o la stessa Ingrid Bergman, ai tempi engagée con lo stesso Rossellini. Il personaggio della cronista Letitia Pottle, il cui nome già nasconde un gioco di parole, camuffa senza grosso sforzo un riferimento ad Hedda Hooper, “sentinella della moralità in sintonia con quei 35 milioni di americani che leggevano ogni giorno la sua rubrica mondana Looking at Hollywood”, recentemente omaggiata, a suo modo, anche in Babylon di Chazelle.

“Tra Méliès illusionista da palcoscenico, divenuto regista di film che rendevano l’impossibile possibile, e i fratelli Lumière, Welles non ha dubbi. Forse ancora di più nel Teatro che nel suo Cinema”, scrive Gagni nelle ultime pagine della sua postfazione. Se la propensione di Welles agli “spettacoli-monstre” a lungo andare ne diradò anche gli impegni teatrali almeno come regista, “Welles cercava un pubblico capace di scegliere il suo Teatro, sempre in biblico tra Shakespeare, i (pochi) testi dichiaratamente politici e quelli assolutamente eccentrici e inaspettati”. Miracolo a Hollywood si posiziona chiaramente in quest’ultima categoria, all’interno della ricerca forse sardonica certo sincera di “un Teatro che si sforzava di essere qualcosa di diverso, in grado di stupire, lontano da un realismo che al tempo non gli corrispondeva, e che non gli sarebbe corrisposto neanche dopo”.
Ciò che fino in fondo non gli corrispondeva era, a dirla tutta, l’insofferenza verso il cinema di cui trasuda ogni pagina di Miracolo a Hollywood. Come si ricorda anche al termine del sui generis libro-intervista A pranzo con Orson dell’amico e “discepolo” Henry Jaglom, Orson Welles morì d’infarto nel cuore della notte, il 10 ottobre 1985, “con la macchina da scrivere in grembo”, sempre alla ricerca di una nuova storia, sempre al lavoro su una nuova sceneggiatura.
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