
Otello lontano dall’America – A 70 anni dall’impresa impossibile di Orson Welles
Sul cosiddetto “esilio” di Orson Welles in Europa sono state fatte tante ipotesi, tra chi parlava di problemi col fisco, coi creditori, chi semplicemente riconduceva il tutto a un’impossibile riconciliazione tra la visione di Welles e quella dell’industria californiana dell’entertainment, con forti sospetti che il maccartismo potesse aver avuto una parte importante in questo allontanamento. I legami con il Fronte Popolare, molto a sinistra nel panorama politico americano, furono infatti oggetto di attenzione da parte del governo federale statunitense, come riporta Denning: “In the years after Macbeth, Welles remained active in Popular Front civil rights struggles. The majority of his FBI file tracks his involvement with black organizations like the Negro Cultural Committee.”[1] Se i contatti con l’ambiente culturale americano continuano comunque incessantemente, così come l’impegno civile, il distacco dagli studios USA mette Welles di fronte a un sistema produttivo molto diverso, di cui solo in parte le ristrettezze della Republic erano state una sorta di prodromo. Se le riprese di Macbeth erano durate meno di un mese, “non basteranno due anni per le riprese di Otello. Se Macbeth era solo un film, Otello è anche un pezzo di vita di Orson Welles, un’esperienza che necessiterà di essere raccontata attraverso un diario di lavoro […] e attraverso il film documentario Filming Othello (1978).”[2]

Ormai proverbiali le traversie produttive di Otello, tra il fallimento della casa di produzione romana Scalera Film, la difficoltà nella scelta degli attori e la cronica mancanza di fondi, cui Welles provò a rimediare accettando ruoli in ben quattro film che lo tennero sì lontano a più intervalli tra preproduzione, riprese e montaggio, ma gli permisero di sostenere economicamente il film e gli ozi europei (“Orson said the only way to understand Shakespeare was by eating lots of lots of caviare and bliny and drinking plenty of champagne”).[3]
Se rispetto a Macbeth aumentano le difficoltà, in Otello si accresce ancora di più la sperimentalità: innanzitutto generata dalla sfida di riuscire a montare insieme pellicole impressionate in tempi e luoghi diversi, con soluzioni creative per il mantenimento di continuità logica e unità stilistica, ma soprattutto dovuta a scelte registiche e di scrittura ancora una volta in anticipo sui tempi. Per cominciare, se Macbeth conteneva un buon numero di piani sequenza, Otello va nella direzione opposta, e così come è stato girato a pezzi, si mostra poi spezzettato nel montaggio finale, in un decoupage anticlassico che restituisce la confusione del Moro, un valoroso condottiero ingannato dal consigliere Iago, a lui inferiore in rango e corporatura, quasi verme di fronte alla stazza imponente del protagonista, interpretato dallo stesso Welles. Se il film è fatto di tante inquadrature, tanti frammenti, [4] la sceneggiatura non è da meno, a livello di costruzione si rivolta su se stessa, parte dalla fine e ci ritorna poi sopra, rimuginando sul significato di quelle tre esistenze (Desdemona, Otello e Iago), distrutte non dal fato, come in Macbeth, ma dall’umano.

Ancora una volta Welles mette alla prova le capacità interpretative del pubblico, cominciando da una sequenza che dovrebbe stare alla fine, il funerale di Otello e Desdemona, che subito mette in chiaro le idee forti che Welles ha deciso di trasmettere per tutta la durata del film: tenebrose contrite ombre di chierici si stagliano, nere silhouette, su un cielo bianco, il passo ritmato del corteo funebre è accompagnato da un’inesorabile tema cadenzato e tagliente, presagio di tragedie diegeticamente passate ma filmicamente future. Un avvertimento per lo spettatore e una condanna per il consigliere di sventura Iago, ingabbiato, allontanato dal resto della società per mezzo di una gru, ma costretto a vedere i frutti morti della propria sconfitta, e in sottofondo, nell’alternanza di campi lunghi e primissimi piani, inesorabili continuano a risuonare le bellissime, mortali musiche di Francesco Lavagnino e Alberto Barberis. Già dall’incipit il film appare quindi di non immediata lettura, Welles adotta una struttura che sottintende la conoscenza della trama da parte del pubblico, in questo – come sottolinea Anthony Davies – discostandosi dagli adattamenti del contemporaneo Laurence Olivier, che punta a rendere Shakespeare accessibile a chi ha solo minime conoscenze in materia, e proprio sull’incipit, così parlava Welles:
A film got to open at a peak. It’s not like theatre in this respect. A staged play can open serenely and build up to its climax. But a film must open with immediate impact, because this damned thing [the screen] is dead, so the ‘riderless horse’ must come in at the beginning. This is what it is [the initial prefiguring sequence of the film]; the riderless horse.[5]
E se nel suo incipit richiede già conoscenze pregresse, l’Otello di Welles propone poi un approfondimento, un’indagine sui personaggi, in particolar modo sul protagonista, che è sempre più highbrow, con uno stile che è cubista, frammentato, giocato su più punti macchina, più punti di vista sul medesimo soggetto. Di qui le azioni interrotte, i cambi di inquadratura tra una battuta e l’altra, la scansione di Otello al microscopio, quasi a indagarne ogni centimetro, a penetrarne la mente.[6]

Un film che è dunque più vicino all’arthouse cinema europeo che non al cinema americano coevo, e che in Europa (e dintorni) trova location reali, storiche, lontane dai set preparati ad hoc nei teatri di posa americani: così Welles può girare a Venezia il matrimonio segreto di Otello e Desdemona nella Chiesa di Santa Maria dei Miracoli, luogo scelto ancora oggi per le nozze da tanti veneziani, può sfruttare il cortile di Palazzo Ducale e la sua Scala dei Giganti, può girare alla Ca’ d’Oro e inquadrare veri, labirintici incroci di canali; può andare in Marocco e sfruttare una cisterna portoghese con apertura circolare sul soffitto per creare una camera da letto simile alla Camera degli sposi di Mantegna, mantenendo altissimo il livello culturale dei suoi riferimenti.[7] La tendenza di Welles a seguire lo sperimentalismo degli autori europei e a rifarsi continuamente a modelli colti del vecchio continente è un aspetto che, se ancora non entrato nei gusti di studios e pubblico durante la crisi di Hollywood negli anni Cinquanta, diventerà un riferimento fortissimo e fondamentale per gli autori della New Hollywood, che cominceranno a lavorare un decennio dopo l’esperienza europea di Welles.[8]
Tornando a Otello, così come Welles è al centro di un movimento culturale che attende di manifestarsi al mondo, Iago appare, secondo Davies, il vero centro di una tragedia che attende di risolversi inesorabilmente nella morte.[9] Addirittura, la centralità di Iago, quasi onnipresente, mai fermo e profondamente solo, è accostata da Peter Cowie ad altri grandi personaggi wellesiani:
A terrible loneliness exists within him as it does within Arkadin and Quinlan. Welles shows him lurking at the back of the church where Othello and Desdemona are married in stealth… Time after time, the wind blows his air about his face, making him look like some predatory animal; his headgear resembles a vulture’s straggling hood… Welles shows him repeatedly in a superior position, forever gazing down on his victims from battlements or a stairhead as if he held sway over them.[10]

Il punto di vista di Iago influenza infatti la pellicola sin dall’inizio, lo vediamo osservare dall’alto le sue vittime, ma l’uomo è ingabbiato, bestia finalmente catturata e pronta ad essere giustiziata, tuttavia nei suoi occhi resta quell’irrequietezza che lo caratterizzerà durante tutto il film: gli occhi di Iago sono il centro di una dinamica molto moderna, insolita, con cui Welles non solo mostra l’epilogo al posto del prologo, ma da subito pone il punto di vista più forte sull’antagonista, anziché su Otello. Welles è interessato più al motore della storia che a chi la subisce, e disegna un film estremamente complesso, stratificato, adatto a svariate letture, prodotto di una cultura highbrow ancora lontana dall’essere recepita dall’industria hollywoodiana. È però con Chimes at Midnight – Falstaff (1965) che il regista americano si avvicinerà di più alla propria visione, mettendo finalmente d’accordo se stesso (fatto non scontato) assieme a molta critica e al pubblico.
Il documentario Filming Othello:
Note
[1] Denning M., The Cultural Front. The Laboring of American Culture in the Twentieth Century, New York, Verso, 1996., p. 397.
[2] Salotti M., Orson Welles, Recco, Le Mani, 1995, p. 96.
[3] La citazione in parentesi è di Mac Liammoir, riportata in ibidem, p. 97.
[4] “Secondo François Truffaut il film conta circa duemila tagli (contro i cinquecentosessantadue di Citizen Kane).”, da Quarenghi P., Shakespeare e gli inganni del cinema, Roma, Bulzoni Editore, 2002. p. 112.
[5] Orson Welles in Girando Otello (The Making of Othello, Orson Welles, 1978).
[6] “It is as though the idea must be dissected, probed and penetrated from many different angles. As with the whole Othello adaptation, so, with its component ideas, Welles’s cinematic technique sustains an exploration in search of a dramatic centre” da Anthony Davies, Filming Shakespeare’s Plays. The Adaptations of Laurence Olivier, Orson Welles, Peter Brook and Akira Kurosawa, Cambridge, Cambridge University Press, 1988, p. 102.
[7]L’elenco completo delle location in esterna, come riportato da Quarenghi in P. Quarenghi, op. cit., p. 113: in Italia: Venezia, Roma, Orvieto, Viterbo, Perugia e Tuscania; in Marocco: Mogador, Safi e Mazagan.
[8] Martin Scorsese, Sam Peckinpah, Peter Bogdanovich sono solo alcuni dei giovani autori che risolleveranno le sorti di Hollywood grazie a film più simili a quelli europei, prevalentemente italiani e francesi, capaci di intercettare la nuova sensibilità di pubblico e critica: non stupisce, quindi, che il lavoro di Welles fosse ammirato da un giovane di belle speranze come Bogdanovich, conosciuto sul set di Comma 22 (Catch-22, Mike Nichols, 1970), e non stupisce nemmeno che Nichols, anch’egli motore della Nuova Hollywood avesse scritturato proprio Welles per un film di guerra che di classico aveva poco o niente, e che adattava per il cinema un romanzo del tutto anticlassico, molto moderno, intrinsecamente pacifista come Catch-22 di Joseph Heller.
[9] “There is much in the film’s treatment of Iago to suggest that he is the main Wellesian interest in the play”, in A. Davies, op. cit., pp. 115-116.
[10] Peter Cowie, A Ribbon of Dreams: The Cinema of Orson Welles, South Brunswick, A. S. Barnes, 1973, p. 119.
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[…] Da questi caratteri si evince, come detto, la natura profondamente anticlassica di Macbeth e il conseguente disallineamento dai gusti del pubblico, e quindi del cinema d’intrattenimento americano che per i successivi dieci anni chiuderà le porte a Welles, pronto a un viaggio che lo porterà a fare cinema lontano da Hollywood, lontano da casa, novello Odisseo verso l’Europa. È tempo di Otello. […]