
Macbeth, dalla giungla alle nebbie – Sull’adattamento di Orson Welles
Nel 1948, Orson Welles è già in una fase avanzata di disgrazia presso Hollywood, si deve dunque rivolgere a una casa di produzione indipendente per realizzare un progetto di lungometraggio le cui prove generali andavano avanti da anni. Herbert Yates, presidente della Republic Pictures, casa che produceva per lo più western di serie B, decide di credere nel rilancio di Welles come autore adatto al pubblico americano: comincia così l’avventura del Macbeth cinematografico, parente più o meno stretto di quello teatrale e radiofonico. Ci sono, infatti, almeno tre precedenti importanti nella produzione di Welles, ovvero il “voodoo Macbeth” o ”Macbeth negro” del 1936,[1][2] l’adattamento radiofonico del Macbeth per la CBS Columbia Workshop (1937) e l’edizione diretta da Welles nel 1947 per l’Utah Centennial Festival a Salt Lake City.

Se quest’ultima versione è importante perché costituirà la base per il Macbeth cinematografico girato nell’estate dello stesso anno,[3] l’adattamento radiofonico certifica nuovamente la volontà Wellesiana di portare Shakespeare a un pubblico il più possibile vasto; è però il “voodoo” Macbeth, quello della Negro Division del Federal Theatre, diretta da John Houseman, a costituire il progetto di maggiore interesse sul piano culturale in vista del Macbeth filmico. Col debutto del 14 aprile 1936, al Lafayette Theatre di Harlem, New York, Welles si presenta nella triplice veste di regista, coreografo e adattatore, portando in scena un Macbeth recitato da attori afroamericani e ambientato “spostando l’azione dalla brumosa Scozia a una magica giungla popolata da misteriose presenze ed echeggiante di tamburi sempre meno distanti”,[4] uno spazio che secondo John Houseman era un tentativo, da parte di Welles, di incrociare il violento Macbeth col feroce re nero di Haiti, Henri Christophe.[5] L’artista si presta così al tentativo di “creare un teatro negro”,[6] facendo da capofila a un’appropriazione fortemente popolare del dramma shakespeariano promossa dal breve esperimento del Federal Theatre, che avrà ripercussioni anche sull’opera cinematografica. Basti pensare al fantoccio creato dalle streghe durante il prologo di Macbeth, una sorta di bambola voodoo fabbricata per convogliare influssi maligni nel generale dell’esercito di re Duncan.[7]

Budget molto basso, pochi giorni di riprese, un teatro di posa solitamente usato per i serial western della Republic e ora da adattare per le riprese di Macbeth: sembrano le premesse di un film creato per un pubblico popolare, una produzione orizzontale, dal basso al basso, ma ancora una volta Welles rimescola le carte, usa il suo talento di regista per costruire un’opera complessa, seppur compressa in un set così piccolo, che subito esce dai canoni del film per il grande pubblico. Due in particolare gli aspetti principali che portano la produzione a ritirare il film dal concorso della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, cui era stato iscritto nel mese di settembre 1948: il playback dei dialoghi e l’eccessiva durata.[8]
Un film dunque lontano dall’orecchio del pubblico e anche di difficile lettura, perché le scelte stilistiche di Welles sono avanguardistiche, lontane dal decoupage classico americano: un prologo letteralmente fumoso introduce lo spettatore a un mondo pre-storico, in cui la religione cristiana, appena giunta, è già osteggiata dalle forze del male, tre streghe intente a manipolare una sorta di brodo primordiale da cui si origina la magia nera. Il montaggio si gioca su continue dissolvenze incrociate che disorientano e accompagnano in un mondo nascosto dietro la nebbia e che non mostra le proprio fattezze, così come Macbeth e consorte proveranno a nascondere la propria natura ferina per tutto l’arco del loro complotto.
L’incontro iniziale tra Macbeth e le streghe mostra subito i limiti economici della produzione, il fumo riempie gli spazi vuoti, i costumi appaiono fuori luogo, le parrucche evidentemente posticce. Nelle scene successive ci si presenta un set spoglio, di cartone, sfruttato però da Welles oltre i suoi limiti grazie a inquadrature che moltiplicano gli spazi sfruttando angolazioni inedite: davvero di forte impatto i piani ravvicinati, dal basso, con personaggi a troneggiare sulla macchina da presa; geniali le soluzioni luministiche chiaroscurali che in parte nascondono una messa in scena povera, dall’altra contribuiscono a caricare di senso le inquadrature dedicate soprattutto a Macbeth e Lady Macbeth, sdoppiati così nella luce come nella personalità, scissa tra un’umanità perduta e una smania degna di bestie, pronta a scatenarsi alla prima occasione. Tante le soluzioni “moderniste” adottate da Welles, molte troppo in anticipo sui tempi e che, messe in sequenza, difficilmente potevano accompagnare il pubblico dell’epoca entro il labirinto di una storia già di per sé complessa, tra nebbia, fantasmi e tradimenti.

Una composizione, poi, che ricorda spesso Citizen Kane – Quarto potere (1941), così come la scelta fotografica della profondità di campo, un “tutto a fuoco” che sfida ancora una volta i canoni della narrazione classica per immagini,[9] atta ad accompagnare, con fuochi ben progettati, lo sguardo dello spettatore. Dunque, sempre in una teatralità che gli è cara, Welles sperimenta e prova a sfruttare i mezzi – pochi, in quel frangente – che il medium cinematografico gli offre, nonché l’esperienza guadagnata in anni di film, spettacoli e radio (quest’ultima in qualche modo presente grazie alla voce fuori campo che introduce la storia alla maniera dei drammi radiofonici). D’altronde, sulle possibilità tecnologiche che aprivano nuovi scenari nel teatro – e non è insensato allargare il discorso al mezzo cinematografico -, Welles si esprimeva così già nel 1939:
La poesia non è più necessaria né possibile [a teatro], perché potendo far sorgere l’alba su Elsinore con una lampada e un barattolo di vernice, non c’è motivo di fermare un personaggio nel mezzo dell’azione e fargli dire una battuta come: «Ma guardate come l’aurora, avvolta nel suo mantello di rose, sfiora col piede la rugiada su per quell’erta collina di levante», anche supponendo di essere capaci di scriverla. Non è possibile vedere e udire la bellezza contemporaneamente e appieno… Perché la poesia fa da scenografia a se stessa […].[10]
Dunque uno Welles come artista moderno consapevole dei cambiamenti inevitabili che le nuove tecnologie porteranno nel mondo dell’arte, di qui lo sfruttamento della tecnologia, anche di massa (radio, cinema, televisione) per sperimentare nuove forme narrative, raggiungere un pubblico più ampio e provare a colmare la distanza tra elitario e popolare. Macbeth è un esempio lampante di come questa volontà non riscontrasse sempre il successo sperato, e in questo senso Welles è simile proprio al suo Macbeth, spesso completamente solo sulla scena, perso – come scrive Cocteau – “nei corridoi di una specie di metropolitana di sogno, in scantinati distrutti dove l’acqua gocciola, in una miniera abbandonata”,[11] scura, arcaica, barbarica, teatro di un “conflitto che si svolge prima di tutto nella mente del protagonista e che cerca fuori, nello scontro col resto del mondo, un impossibile acquietamento.” [12]

E proprio il rapporto tra mente e mondo esterno risulta in ciò di cui parla Vittorini: “La smaterializzazione del profilmico, paradossalmente reificato fino a mostrare il suo carattere finzionale, la svalutazione della coesione narrativa, la deflazione dell’effetto di realtà”,[13] e questo è evidente proprio nelle pietre di cartone, nelle ombre multiple proiettate da luci di scena quantomai presenti, nel vestiario e nella corona di Macbeth, cartonata, ridicola, ma calata in un contesto che non cerca più il verosimile e si fa spazio dell’anima per l’anima, “confuso” perché anticlassico, ma ordinato perché allineato alla follia, al peccato ultimo del tradimento omicida.
Da questi caratteri si evince, come detto, la natura profondamente anticlassica di Macbeth e il conseguente disallineamento dai gusti del pubblico, e quindi del cinema d’intrattenimento americano che per i successivi dieci anni chiuderà le porte a Welles, pronto a un viaggio che lo porterà a fare cinema lontano da Hollywood, lontano da casa, novello Odisseo verso l’Europa. È tempo di Otello.
[1] «voodoo» Macbeth nella definizione riportata in Marco Salotti, Orson Welles, Recco, Le Mani, 1995.
[2] “Macbeth negro” nella definizione riportata in Paola Quarenghi, Shakespeare e gli inganni del cinema, Roma, Bulzoni Editore, 2002.
[3] Indicazione temporale riportata in M. Salotti, op. cit., p. 86.
[4] M. Salotti, op. cit., p. 85.
[5] Lo ricorda Richard France in Richard France, The Theatre of Orson Welles, New York, Associate University Press, Cranbury, 1977.
[6] M. Salotti, op. cit., p. 85.
[7] Stando all’interpretazione voodoo di Richard France, contenuta in R. France, op. cit.
[8] Infatti dopo la prima proiezione statunitense, il produttore esecutivo Charles K. Feldman chiederà a Welles di accorciare il film di due rulli, circa venti minuti, portandolo dai 102’ iniziali a 81’; l’altra modifica forte coinvolge, appunto, il playback: Welles aveva scelto di registrare i dialoghi prima di girare le scene nel teatro di posa, in modo da poter concludere nel minor tempo possibile senza preoccuparsi dell’audio, che avrebbe necessitato dell’interruzione nell’allestimento del set, in continuo mutamento a causa dell’inevitabile economia di spazi. Gli attori dovevano quindi recitare in sincrono con il preregistrato, ma soprattutto dovevano adottare l’accento scozzese, voluto dal regista perché percepito come più vitale ed efficace di quello inglese moderno (nonché diegetico rispetto all’ambientazione dell’azione, la Scozia, appunto). La scelta, certo innovativa, risulta da subito poco commerciabile ai responsabili di Republic, così ad averla vinta è una postsincronizzazione “che restituisca il testo shakespeariano alla dolcezza (e alla commerciabilità) dell’accento inglese moderno”. (ivi)
[9] Per tutto il lessico di linguaggio e tecnica cinematografica è stato consultato Giaime Alonge, Il cinema. Tecnica e linguaggio, Torino, Kaplan, 2011.
[10] P. Quarenghi, op. cit., pp. 146-147.
[11] Jean Cocteau, Del cinema, Milano, Il Formichiere, 1979, p. 22.
[12] P. Quarenghi, op. cit., p. 153.
[13] Fabio Vittorini, La soglia dell’invisibile. Percorsi del Macbeth: Shakespeare, Verdi, Welles, Urbino, Carocci, 2005, p. 134.
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